“Il suo nome significa ‘soldato’,” dice Yaar Mahahammad, il nostro interprete.
Yaar parla di Askarkhan, un ragazzo di 13 anni che solleva le rocce per le fondamenta di un nuovo rifugio con una facilità che metterebbe in imbarazzo la mia stessa forza fisica. Askarkhan ci guarda con occhi penetranti da dietro i suoi abiti di seconda mano. Malgrado il suo nome marziale, i suoi vestiti non ricordano un’uniforme, e lui non he ha bisogno. Qui, a 4305 metri di altitudine nel turbinare di una tempesta di neve nel Wakhan Corridor, Askarkhan è distante dalla guerra e dei problemi che sono tragicamente diventati sinonimo del nome della sua partia, l’Afghanistan.
Qui la migliore arma per sopravvivere è la resistenza, non un fucile. Le armi da fuoco sono utili solo contro i saccheggi dei lupi, ma Askarkhan resisterà a pascolare le mandrie di yak e pecore sulle montagne, durante la breve estate di 8 settimane. La sua resistenza lo farà sopportare il freddo della notte, le tempeste di neve (possibili 350 giorni l’anno) e l’aria rarefatta. Ho un sacco da imparare. Tutto considerato, questo è probabilmente il posto più duro in cui io sia mai stato, quindi perchè diamine stiamo cercando di andare in bici qui?
La neve seppellisce le nostre sei bici e le tende. Sopra di noi, nascosta nella nebbia, c’è la strada che ci aspetta, il passo Karabel di 4809m, il secondo dei tre più alti passi che dobbiamo superare durante il nostro viaggio di 12 giorni attraverso il corridoio Wakan. Superare ogni passo significa alzarsi alle 4 del mattino, per consentire agli animali da soma che portano i nostri bagagli una possibilità di superarli fintanto che la neve è gelata e rigida. Ogni salita ci obbliga a strapparci dai caldi sacchi a pelo per metterci le scarpe da bici ghiacciate ore prima di poter solo pensare alla colazione. In compenso troveremo – si spera – ogni volta una discesa su singletrack da fondere i freni.
Per quanto un viaggio in bici possa essere avventuroso, non lo sarà mai quanto questo. Il termine avventura sembra escludere questi viaggi da ogni possibilità di lamentarsi; dopotutto, se le cose si fanno difficili, è solo parte dell’ “avventura”. Ma anche dopo 30 anni di viaggi remoti in mountainbike, questo sta mettendo a dura prova la mia determinazione. Se “conquistato con difficoltà” è il prezzo da pagare per girare dove nessuno ha mai girato prima, allora in Afghanistan stiamo pagando troppo. Finora non c’è stato proprio niente di facile nel nostro viaggio. Dal duro avvicinamento via terra durato quattro giorni dal confinante Tajikistan, alle enormi escursioni termiche che fanno passare dai 30°C di caldo di un giorno alle tempeste di neve del giorno dopo. E’ il quinto giorno quando conosciamo Askarkhan. Ne restano altri 7. Sono stanco, ho i piedi bagnati e le mani intorpidite.
Cinque giorni fa siamo partiti da Sarhad, il villaggio alla fine dell’unica strada ciottolata nel Wakhan corridor. E’ una strada che abbiamo percorso su Toyota con gomme lisce e parabrezza rotti, mettendoci 14 ore per coprire gli ultimi 150 km di suolo afghano. Dopo un’esperienza del genere è stato bello salire in bici, malgrado la salita di 600 metri che ci aspettava subito. Ci lasciamo alle spalle ogni sembianza di veicoli, servizi igienici o copertura di rete telefonica. Per 12 giorni, i nostri copertoni poggiano solo su antichi sentieri scolpiti sui polverosi fianchi delle montagne da secoli di determinato traffico di bestie da soma. Per i primi due giorni seguiamo una parte dell’antica strada della seta, che porta ad Est verso la Cina, all’ombra dei picchi incredibilmente verticali dell’Hindu Kush Pakistano.
“Dunque, abbiamo tre possibilità”, spiega Tom Bodkin riguardo alle opzioni per il nostro percorso, spiegando una vecchia mappa sovietica degli anni ’80 sull’erba. Salvo accedere clandestinamente al programma militare statunitense dei droni, queste carte della vecchia era sovietica sono l’unica fonte di informazioni che abbiamo. Queste mappe sono un labirinto di fitte curve di livello. Tom gestisce un’agenzia che si occupa di viaggi avventurosi – Secret Compass – ed è il cervello dietro l’intera spedizione per cui siamo partiti. E’ realistico, ed elenca tutti i problemi che potremmo incontrare durante il viaggio di 250 km. Come se stesse aggiungendo elementi ad una lista della spesa, elenca una quantità di fiumi pieni di neve fusa e alti passi nevosi, ognuno dei quali potrebbe dimostrarsi insuperabile imponendoci di fermarci.
Per tutti i mountain biker riuniti, inclusi il pro Matt Hunter, i cameramen di Anthill film CJ e Darcy e il veterano di questo tipo di spedizioni Brice Minnigh, l’attrazione delle pedalate qui non è certo per la gloria o per le chiacchierate ai bar con gli amici riguardo al coraggioso “sopravvivere l’Afghanistan”. E’ l’eccitazione dell’ignoto, o di quello che si nasconde oltre i confini della routine quotidiana. E’ il fascino dei singletrack guadagnati duramente che ci ha portato su questo territorio spietato. E’ vero che nessuno abbia mai pedalato, spinto o portato bici qui prima, ma il popolo Waki accoglie qui circa 100 turisti che fanno trekking ogni anno, al sicuro sapendo che il Wakhan si trova oltre l’interferenza talebana.
La bellezza del paesaggio non ci lascia indifferenti, ed abbiamo tutto il tempo per apprezzarla. Mentre portiamo le bici sulle spalle per 500 metri di dislivello, le dure montagne attorno a noi diventano una distrazione dal compito di mettere un piede di fronte all’altro sul fondo sabbioso del fianco della montagna. Lo schema di salita, discesa e poi di nuovo salita si stabilisce già dal primo giorno subito dopo la partenza. Alla fine di questa prima giornata di 11 ore sul sentiero, abbiamo attraversato due passi e guadato due fiumi ghiacciati prima di piantare il campo.
Pedaliamo su sentieri stretti e poco compatti, abbarbicati precariamente sopra tuonanti fiumi marroni di neve sciolta. La curva di apprendimento per arrivare a conoscere i sentieri è ripida, ma trovarsi Matt davanti è la migliore lezione che chiunque possa desiderare. Ognuno affronta i sentieri diversamente, ma è l’attraversamento dei fiumi la difficoltà più grande.
Ad ogni fiume ci fermiamo, raccogliamo il gruppo e pianifichiamo l’attraversamento, e questo a ragion veduta. Ogni fiume è un furioso torrente di acqua di neve sciolta, freddissima ed incredibilmente scura dalla terra che contiene. Portare le bici si rivela un gioco di nervi ed equilibrio. I piedi intorpiditi diventano il bersaglio di rocce che sembrano palle da bowling, che rotolano sul letto del torrente portate dalla corrente furibonda. Nel frattempo il team di supporto afghano ci chiama dall’altra riva, aggiungendo altra drammaticità. E poi dobbiamo far attraversare gli asini.
In verità non andremmo da nessuna parte senza il supporto locale ed i loro animali che portano il nostro cibo e tutto l’equipaggiamento per accamparsi. In questa terra dimenticata, in cui l’inverno dura 8 mesi l’anno, noi siamo un buona fonte di guadagno per sei local, tra cui il cuoco Amin Bek, il suo aiutante Amin Ali ed il nostro interprete Yaar Mahammad. L’inglese di Yaar è di livello base a dir tanto, ed è chiaro che non capisce molto di quello che Tom cerca di dire alle nostre guide. Ma senza di lui saremmo persi. Trovare qualcuno che conosca l’inglese in questo remoto angolo del mondo è quasi impossibile. Quando Tom ha sparso la voce, solo tre candidati si sono presentati al confine tra Tajikistan e Afghanistan al paese di Ishkashim. Uno di loro aveva viaggiato due giorni per offrire il suo servizio.
Dove ci fermiamo ogni notte per piantare il campo è deciso dal bisogno di acqua e pascolo dei nostri animali, piuttosto che dalle nostre capacità. Le distanze che copriamo sono piccole su qualunque scala, ma di questo sono grato. Partiti da 3264m, siamo saliti rapidamente a 4200m restando sopra i 4000 metri per la maggior parte del viaggio. Solo il tempo ci consentirà di abituarci.
Per i primi tre giorni ci facciamo strada su un lato del tonante fiume Wakhan, attraversando i suoi affluenti e facendo il più possibile su ogni sezione pedalabile di polveroso sentiero. Arriviamo alle magnifiche colline del piccolo Pamir e seguiamo un solitario sentiero per cavalli lungo le valli e sui passi. Le forze ci sono ed il gruppo unito da un buon cameratismo, ma le sfide fisiche e mentali chiederanno il loro tributo presto. Ognuno di noi soffrirà un momento di dura difficoltà nel viaggio, quando energia e morale crolleranno. A me capita il giorno otto, durante una pedalata di 40 km che parte con una mattina di singletrack flow ma finisce in una sgobbata su terreno paludoso in un vento contrario di mulinelli di neve. Quando ci fermiamo per una pausa, mi chiedo se siamo sani di mente. Il gruppo è silenzioso. Ho l’impressione che gli altri condividano i miei stessi dubbi, ma nessuno voglia rovinare la festa. Ci spingiamo oltre, e ovviamente alla fine sarò contento di averlo fatto, ma al momento in cui raggiungiamo il campo al crepuscolo siamo stati sul sentiero per 12 ore.
I posti in cui ci accampiamo variano, a volte in prati aperti ed esposti circondati da rocce scolpite con incisioni rupestri, a volte schiacciati in strette forre. Non ci sono villaggi permanenti nel Wakhan, quindi ci accampiamo dovunque troviamo la capanna di un pastore che fa da riparo per gli afghani, e quando comincia a cadere la neve, ci uniamo a loro in questi rifugi senza camino fintanto che riusciamo a sopportare il denso, soffocante fumo del fuoco alimentato a letame di yak. Problemi respiratori sono comuni qui. Nessuno di noi aveva mai incontrato persone così forti, e piene di risorse. La notte prima della prima alta traversata, gli afghani scioglievano le suole delle scarpe per incollarci pezzi di tessuto. I ramponi che ne risultavano li aiutavano nella camminata sulla neve.
Gli alti passi sono diventati il nostro maggiore ostacolo. Più alti di qualunque picco europeo, mettono a dura prova forma fisica e capacità polmonare. Con una partenza alle 4 del mattino e con temperatura sotto zero è una gara contro il tempo, nel tentativo di superarli prima che la neve si ammorbidisca. Sul passo Karabel perdiamo la gara; i cavalli si dibattono nella neve. Abbiamo scollinato ma è impossibile proseguire senza rischiare di perdere un amimale. Ci dobbiamo ritirare sapendo che il giorno successivo dovremo fare un altro giro per raggiungere la prossima tappa.
Ci accampiamo a 4400 metri sotto un enrome ghiacciaio. E’ probabilmente il posto più spettacolare dove ci siamo accampati, ma sono troppo stanco per apprezzarlo veramente. Sei ore più tardi ci arrampichiamo nuovamente su per un ghiaione per raggiungere il passo Showr a 4867 metri, la porta per le montagne del grande Pamir, controllato dai Chirghisi. La conquista è tanto fisica quanto psicologica. La discesa è un misto di neve, fango e rocciosi singletrack, che si snodano tra rocce attorno a paludi. E’ un riding selvaggio come l’area che ci circonda.
Il paesaggio si apre in una larga valle ghiacciata, e noi passiamo attraverso essa rapiti dalle dimensioni di ciò che ci circonda. Per le due notti seguenti siamo accolti in yurte chirghise e dormiamo assieme ai sei afghani che abbiamo con noi. Protetti dal vento incessante, le tende adornate di coperte sono un sollievo per tutti. Siamo affascinati dalla vita nelle yurte come loro lo sono dal nostro viaggio in bici. Ridono mentre ingoiamo a fatica il rancido, acido yoghurt di yak che accompagna il the.
I chirghisi sono maestri dell’equitazione. Qui cavalli e Yak sono gli unici mezzi di trasporto; le bici non si sono mai viste. Mentre scendiamo lungo le valli le nostre bici sono oggetto di sguardi affascinati. A qualcuno potrà sembrare brutto che pedaliamo su bici che costano più di quanto un local guadagna in dieci anni, ma il loro valore non ha senso qui. Tutto ciò che importa è che hanno le ruote e sembrano divertenti da provare a guidare. Ad un villaggio l’insegnante locale scompare su una delle bici per 20 minuti, ritardando la nostra partenza. Sembra che i bambini non abbiano mai avuto a che fare con una ruota, figurarsi pedalare su una bici. La meraviglia che è la bici illumina una dozzina di volti mentre Matt mostra i suoi XTR di ricambio ad un gruppo di bambini del posto. Li tengono in mano e li fanno girare ridendo.
Dopo undici giorni la routine di pedalare, camminare, mangiare e dormire è diventata la nostra vita. L’igiene non esiste, i fiumi sono troppo freddi per qualunque cosa non sia una bagnatina simbolica e malgrado la sfida quotidiana di coprire la distanza prevista, arrampicarsi su passi nevosi o pedalare su sentieri tecnici e rocciosi, la vita è diventata semplice.
Me ne ricordo mentre spingo la bici lungo un’altra strada con rocce troppo grandi e fitte per pedalare. Ormai mi sono abituato alla frustrazione di spingere la bici. Fra pochi giorni prenderò un aereo per tornare ai lussi dell’Europa. Non posso negare di essere eccitato all’idea di un letto vero, o di aprire un rubinetto per avere acqua potabile. Ma allo stesso tempo so che non ripeterò mai quello che sto facendo adesso, e queste esperienze non si ripeteranno mai uguali. Così per ora sorrido, dilettandomi della massa di esperienze che in questo momento intasano i miei sensi. E’ la cosa più difficile che abbia mai fatto, ma l’adoro.
Il Wakhan Corridor
L’Afghanistan non è ignoto ai visitatori, ma le loro intenzioni non sono sempre state buone. L’hippy trail degli anni ’60 attraverso l’Afghanistan è stato spazzato via di dieci anni di guerra URSS-Afghanistan degli anni ottanta, e non c’è bisogno di ricordare la sanguinosa storia recente del paese. Ma malgrado i secoli di guerre e spargimenti di sangue, il Wakan è rimasto in pace e libero dalle armi. Questa stretta lingua di terra, schiacciata tra l’ex-sovietico Tajikistan al nord, Pakistan al sud e Cina all’est è stata smilitarizzata durante il Grande Gioco, la ricerca da parte degli imperi russo e inglese del 1800 di colonizzare altri paesi.
Convergendo in Afghanistan, le due potenze hanno lasciato il Wakan come una barriera pacifica tra loro. Il risultato è oggi uno dei posti più belli e pacifici della terra. La spedizione di 12 giorni ha fatto 8355m metri di dislivello in salita e 8855m in discesa, partendo da Sarhad e finendo a Gaz Khan. Il percorso ha coperto una distanza di 250km ed ha richiesto al team 97 ore sul sentiero. La logistica è stata di competenza di SecretCompass.com
Traduzione di David Roilo
Il video del viaggio:
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