Casco aperto o integrale per i giri alpini?

La montagna è il nostro terreno di giochi e personalmente mi piace sfruttare tutto quello che ha da offrire: dal giro pedalato con discesa flow su letto di aghi di pino, al giro con portage per arrivare sulla cima più alta e scendere sul sentiero più cazzuto possibile.

L’ultima avventura era proprio una di queste: una vetta sconosciuta con una discesa su placche di roccia molto tecnica che non davano mai respiro e un susseguirsi di passaggi al limite, da farsi a vista. Non mi sono trovato lì per caso, anzi era proprio una di quelle situazioni che mi esaltavano e di cui solitamente vado in cerca.

Stava andando tutto bene, ero entrato in sintonia col sentiero e avevo trovato il mio flow, fino a quando di fronte a me si presenta un passaggio con un cumulo di rocce che ne interrompeva la continuità per poi proseguire su terreno sicuro ma esposto. Quest’ultima parte non si presentava difficile ma bisognava arrivarci con la bici nella posizione giusta e perfettamente in equilibrio; in poche parole non erano ammessi errori. Di questo me ne rendevo conto ma la mia testa non ha minimamente preso in considerazione il fallimento. Era uno dei tanti passaggi che ho fatto miliardi di volte, anzi non era neanche uno dei più difficili, quindi con sicurezza mi apprestavo a farlo ma qualcosa è andato storto: la gomma ha perso aderenza, è scivolata sulla destra facendomi perdere l’equilibrio e facendo chiudere lo sterzo a sinistra indirizzando la bici verso il dirupo.

Poi ho sentito solo forti botte e  infine un blackout di qualche secondo. Vedevo tutto nero ma sentivo la voce di Filippo che mi chiamava e poco alla volta ho recuperato anche la vista. Mi mancava il fiato e nei primi momenti l’unica cosa che volevo fare era starmene fermo immobile e in silenzio, per cercare di sostenere il dolore e tornare a respirare normalmente. In seguito, con calma, mi sono alzato e mi sono reso conto che era andata piuttosto bene. Me la sono cavata con una clavicola rotta e un casco da sostituire.

Il MET Roam che mi ha salvato la capoccia

Il video dell’esperienza lo trovate qui:

 

Ormai sono passati giorni e un tutore che mi stringe alla morte la spalla mi riporta spesso alla mente quella caduta. Riguardando il video e vedendomi sbattere la testa violentemente sulle rocce, le domande che mi sono posto e che mi hanno rivolto sono “sarebbe stato il caso di usare un casco integrale” e “eri adeguatamente protetto per questo genere di giri“?

Per rispondere a queste domande torno indietro con la memoria fino agli albori delle mie prime uscite. Ricordo che la prima mtb che ho comprato era una Cannondale Perp con sospensioni a molla, da 180 mm all’anteriore e 200 mm al posteriore, gomme da dh, per un totale di 24 kg di bici. Forse al tempo non ne capivo molto di cosa servisse per andare in montagna e di certo neanche il negoziante che mi ha consigliato, ma ormai quella era la mia bici e qualche bel giro me lo sono fatto. Il mio obiettivo era salire in cima alla montagna per poi guadagnarmi e godermi la meritata discesa. Godere forse non è il verbo giusto, visto che in bici non sapevo andarci e le mie uniche armi per affrontare i sentieri erano il coraggio, un casco integrale, delle gomitiere rigide, un fondello protettivo sui fianchi e infine delle ginocchiere rigide che proteggevano fino agli stinchi.

Cadevo molto spesso e i tornantini li facevo tutti a piedi. Ancora adesso trovo strano che riuscissi a divertirmi ma quello era il posto dove volevo stare e quelli erano i sentieri che volevo fare. Man mano che il tempo trascorreva imparavo, la tecnica aumentava, iniziavo a fare i primi passaggi impegnativi e più aumentavano le capacità più la mia bici “perdeva escursione” . Ero passato da un mezzo da Freeride ad uno da All-Mountain, fino ad usare un frontino in acciaio per poi capire che la bici che faceva per me era una full da Trail con geometrie spinte. Con le mie capacità riuscivo a compensare i limiti della bici ma allo stesso tempo, il fatto che non fosse un cancello mi dava molta più lucidità e maneggevolezza in discesa.

Lo stesso processo è avvenuto con le protezioni: se all’inizio cadevo molte volte ad ogni singola uscita, ora mi capita più raramente e, quando succede, so come affrontare la caduta. La mia testa con l’esperienza ha creato dei meccanismi di difesa che agiscono non appena qualcosa non va per il verso giusto e le reazioni sono immediate. Ora conosco meglio le mie capacità ma soprattutto i miei limiti, so fin dove posso spingermi e dove è meglio non rischiare, non mi lascio influenzare dalla paura ma la so ascoltare come un campanello d’allarme e questa maturazione mi ha portato in modo naturale ad usare meno protezioni. Non ricordo esattamente quando è successo, perché non è stata una decisione presa da me ma ad un certo punto era come se il mio corpo, con tutte quelle cose addosso, non fosse più a suo agio. Erano una distrazione e mi sentivo legato nei movimenti. Penso che si possa fare a meno delle protezioni quando si acquisiscono una certa fluidità nei movimenti e totali sicurezza e consapevolezza di ciò che si sta facendo, il che implica anche saper rinunciare a determinate situazioni se non si ha ancora raggiunto il livello per affrontarle.

In merito alla mia caduta ho letto alcuni commenti che dicevano: “in enduro è d’obbligo usare il casco integrale“! Sì certo, in questa disciplina non c’è nessuna controindicazione nell’usarlo, anzi ne giova la sicurezza. Ad ogni modo c’è da dire che nemmeno il percorso enduro più estremo si avvicina minimamente alla difficoltà tecnica di alcuni sentieri alpini. I primi per quanto difficili, prediligono far scorrere la bici e lo sguardo è rivolto lontano per leggere il terreno e anticiparne le traiettorie. Infatti la difficoltà e la pericolosità sono date dalla velocità, la quale aumenta sempre di più  man mano che si prova e si prende confidenza con il percorso. Proprio per questo motivo, in caso di caduta, non sempre si riescono ad avere tempi di reazione immediati in modo tale da riuscire a proteggersi da un impatto violento.

Invece i sentieri naturali di montagna, in genere, vengono percorsi a vista, il terreno è misto, non ci sono appoggi per le curve e presentano passaggi tecnici da fare alla cieca e a volte pericolosi. Per questi motivi li si affronta a velocità molto più basse rispetto ad un tracciato enduro e in caso di errore, l’impatto non è così violento. Questo dà il tempo di reazione per potersi proteggere e limitare i danni (basta anche solo mettere le mani avanti per attutire la caduta).

Infine nei tratti trialistici che si possono trovare su un sentiero alpino, la velocità è estremamente bassa e lo sguardo punta la ruota per guardare dove sono appoggiati i tasselli della gomma.  In queste situazioni quello che serve veramente è avere il campo visivo più libero e ampio possibile. Qualsiasi cosa possa limitare la visuale, come ad esempio una mentoniera, può compromettere le capacità di guida. Ricordo ancora il mio amico Giovanni (che avrete sicuramente visto in uno dei miei video) che qualche anno fa si comprò un casco scomponibile; lo usò fino a quando fece una caduta su un passaggio impegnativo imputando la causa proprio alla poca visibilità data dalla mentoniera. Da quel giorno è rimasto in garage.

Tornando a me e al mio passato,  ho impiegato più tempo ad abbandonare definitivamente il casco integrale rispetto alle protezioni. Ho iniziato a fare giri che non prevedevano solo salita e discesa ma traversi, sentieri di collegamento, dislivelli importanti e tutte quelle situazioni intermedie che si possono trovare in questi ambienti e in cui l’uso di un integrale risulta scomodo ma che richiederebbero la necessaria protezione della testa. In ultima analisi ci tengo a ribadire che nell’affrontare le tipologie di discese sopracitate, l’avere qualsiasi cosa che mi limita il campo visivo, crea in me una fonte di distrazione a tal punto che solo vedere il bordo di una mentoniera o della montatura di una mascherina o di un occhiale mi provoca fastidio. In questi frangenti la concentrazione è talmente alta che non voglio nessun elemento di disturbo che possa ridurre le mie capacità; anche i micro-movimenti dello zaino mi infastidiscono e paradossalmente se potessi non lo utilizzerei. Magari usando al suo posto un paraschiena più fermo e aderente al corpo, ne gioverebbero la mia qualità e capacità di guida.

Quindi la domanda che mi e vi pongo è: le avventure alpine è meglio affrontarle supportati da protezioni dalla testa ai piedi e con il casco integrale, rischiando di fare molti più errori ma avendo la sicurezza di essere ben protetti o privilegiamo una configurazione light che ci assicura una migliore capacità di guida minimizzando la possibilità di sbagliare? Secondo me la risposta è personale e va cercata in ognuno di noi in base alle proprie abilità, a i percorsi che si prediligono ma soprattutto a come ci si sente maggiormente a proprio agio. Come in tanti sport, il ruolo decisivo lo gioca sempre la nostra testa: se pensate che con molte protezioni avete una marcia in più allora ben vengano tutte le attrezzature che può offrire il mercato, se invece queste cose vi creano dei limiti psicologici o fisici allora meglio farne a meno.

Per concludere, la verità alla base delle mie scelte sta nel fatto che amando percorrere sentieri esposti, qualsiasi tipo di protezione è completamente inutile se non per tenere uniti i cocci nel momento in cui vengono a recuperarmi.

Ovviamente sto scherzando. Buona riflessione a tutti

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