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Tutto comincia grazie alla progettazione e manualità di due ingegneri per trasportare, proteggere e (non ultimo) nascondere 3 bici da enduro.
Il terzo ingegnere sarei io, ma (da Milano) non ho contribuito alla realizzazione del portabici telonato sul Land.
Si parte per il Marocco. Nave prenotata per la notte del 24 dicembre, da Savona. Sbarco a Tangeri dopo 48 ore. I fuoristrada partono carichi di ogni cosa (panettoni compresi). Il terzo ingegnere (la milanese) li raggiungerà comodamente in aereo a Marrakech.
Il programma di viaggio non è stato pensato per le bici, ma i tre ingegneri le hanno volute portare lo stesso. Le hanno usate poco, per non rallentare troppo il gruppo, ma in Marocco ci torneranno (come si deve).
Dopo il brulicare colorato di Marrakech e la salita sull’Atlante, ecco la discesa verso l’anima dell’Africa. Ecco che l’orizzonte si carica di luminosità e di lontano. Ecco che tutto si riempie di sassi, terra rossa, terra marrone. Montagne brulle, erose, strane. Ecco che il colore verde si abbarbica tutto sul fondo dei canyon, attorno allo scorrere del fiume.
Ecco che, usciti dalla porta del deserto (Foum-Zguid), si spalancano le distese piatte fino all’infinito, fino – e oltre – l’inavvicinabile Algeria (vietatissima). Iniziamo a seguire piste di polvere; ed ecco le prime morbidezze di sabbia e la gioia con cui i guidatori sgonfiano le gomme.
Arrivando al dunque, eccoci a montare le tre bici ai piedi di una grande duna.
Non sono tante le dune del Marocco, e – con nostro grande dispiacere – sono piuttosto frequentate. Ma la situazione politica del Nord Africa non consente altri deserti, per cui ci accontentiamo di inerpicarci su una cresta già “tracciata”.
Mi prendo una licenza narrativa: vi avverto che nel racconto sto mescolando le sabbie e le immagini dei due (piccoli) deserti (di dune) del Marocco, l’Erg Chigaga e l’Erg Chebbi; distanti svariati giorni di buche, di campi, fuochi per scaldarsi, etc.
Il terzo ingegnere è una professoressa nella disciplina del “portage” (che qui diventa propriamente “cammellage”), ed ecco che precede i due soci nella “scalata” della duna.
I piedi affondano, e – nel tratto finale – si percorre un metro in su e mezzo in giù: disaagioo!
Fabri, l’ingegnere più esperto, intanto studia la consistenza dei pendii e la durezza della sabbia: prima di lanciarsi nella discesa, bisogna aver già deciso la linea.
Tutto è così breve che non c’è tempo per ripensamenti. La linea è quella stabilita. Pronti via. Il gioco sta nel cercare di non toccare i freni. Così ci dice…
Prima discesa. Disubbidisco e cerco di prendere familiarità con le curve: da brava scialpinista-classica mi diletto in una serpentina. Peccato che poi non abbia abbastanza velocità per superare un tratto di sabbia molle, e mi cappotto.
Seconda discesa. L’aria secca brucia i polmoni ancora affannati, sta volta non curvo e mi lancio tutto dritto. Nei tratti molli peso indietro, nei tratti duri la bici accelera vertiginosamente. E’ piuttosto ripido, ma quando arrivo al dosso cieco… Non resisto e tocco un po’ di freno.
La solita femmina…! Intanto Drago si diletta saltando in pose da campione.
PS: Gli altri due ingegneri sono Fabrizio Dragoni e Canta.
Il ringraziamento va – come sempre – a Sandro Alessi. #AlessiRacingTeam
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