Cos’era il freeride?

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Un giorno me ne stavo al bar di una stazione a bere una birra con un giornalista amico che vedo sempre alle presentazioni. Si parlava del più e del meno in attesa del treno. Più o meno di bici ovviamente. Ma parlare di bici spesso comporta parlare di cose che vanno molto oltre le bici. Non so se funzioni così per altre cose, ma una cosa “stupida” come il ciclismo ha una poliedricità che invade ogni aspetto della bici.



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Sarà forse per la noia o il treno in ritardo, ma ad un certo punto il discorso cade sul fatto che l’amico giornalista sta scrivendo una tesina per la sua triennale di filosofia, titolo “Fenomenologia dello sforzo”. A me li per li l’idea di “sforzo” mi fa venire in mente solo qualcuno con la faccia viola sopra la tazza del cesso, ma lui si fa serio e mi spiega (cerca di) tutta una pippa sulla performance come “passaggio attraverso la forma”, ovvero qualcosa che va aldilà del “ben-essere”.

Mentre me lo spiega incredibilmente io penso di essere l’ammiraglio Nelson e di parlare ai miei marinai sottocoperta. Odore di polvere da sparo, luminelli ad olio, sudore e salsedine. Mi immagino senza un braccio che li guardo dritto negli occhi per motivarli prima della battaglia.

Nel frattempo, una voce lontana mi parla di Honecker o Heineken o qualcuno con un nome del genere e di essere e non-essere. Il che mi rovina l’atmosfera da pre-battaglia. Quindi sbotto: “ma al liceo hai studiato sta’roba?” Lui: “no, ho fatto il geometra, ho progettato uno stabilimento per la spumantizzazione alla maturità, mi è sempre pesato”. 

-“Cosa?

-“Essermi fatto una cultura tardi. Però ci tenevo anche all’epoca a non essere proprio ignorante. Mi è costata parecchio quella maturità

-“In che senso?

-“Gli allenamenti, le diete…io a ricreazione ero l’unico che si portava la mela e il muesli da casa. Sai quante prese per il culo? Ma a me non fregava niente…e poi a scuola finita andavo alla ditta di mio padre, avevo le doppie chiavi della macchina, mi cambiavo, prendevo la bici dal bagagliaio e via a casa. 120km. Di qualità. Tutti i giorni“.

-“Perché hai mollato?

-“Ho scelto al secondo anno da Pro. Avevo vinto due tappe al Giro del xxx. Ero in forma crescente. Sono andato al Giro del xxx. Non riuscivo a tenere gli altri in pianura. Ho capito che era finita

-“Perché?

-“C’è chi nasce pallista o ladro e chi no. Non è che sono sempre andato a pane ed acqua…ma io tutte le cazzate del “fuori i dopati”, etc….non ce la faccio…se le dici una volta le devi dire sempre…alla fine ci credi. E diventi un altro. Io non ho voluto diventare un altro. Mi guardo allo specchio e vedo me. Non un altro. E sto bene così“.

-“Non senti di aver buttato via una parte della tua vita?

-“No. Sai a quanti anni sono uscito per la prima volta fino a dopo mezzanotte? 25. Quando ho guardato l’orologio ed ho visto le 2 non ci credevo. Però tutto quello che ho fatto prima mi è servito

-“A che?

-“A crescere. Fai dei sacrifici. Doppi, perchè i tuoi amici, quelli che ti stanno attorno non hanno idea di cosa sia, di cosa fai veramente. A 18 anni vai alle feste, cazzeggi un po’, pensi alle ragazze. Io alle 8 di sera guardavo il soffitto con le gambe che facevano male. 2 settimane prima delle gare sempre in albergo. Solo con gli altri della squadra. Tutti uomini…e poi lo sai anche tu: ti fissi solo su una cosa, ti alleni, gareggi, non ti vedi mai abbastanza magro, non accetti che non basti e che un altro sia meglio di te…alla fine ne esci scemo. O non ne esci proprio.

-“No, veramente non lo so, ma credo di capire….alla fine è disciplina, sacrifici. Non vuoi che siano fini a se stessi

Qualche mese dopo, ad una fiera, guardavo un rider piuttosto conosciuto che provava su una rampa (o jump o pump o come fiskia si chiama). Lo guardo, so che sta rientrando da un infortunio e prova. Prova questo prova quello, no-foot, no-hand, x-questo, x-quello, etc..

Wade Simmons salta il Moreno Gap, foto di John Gibson
Wade Simmons salta il Moreno Gap, foto di John Gibson

Casca sempre. Si rialza, parla tra sè. Ride, si rimette in sella, spinge sbuffando come un toro su per la rampa e riparte. Alla fine, dopo l’ennesima caduta mi vede, ci si saluta. Come va, come non va. Alla fine è di buonumore. Cadere fa parte del gioco. Provare e riprovare fa parte del gioco. Prova e riprova alla fine il trick riesce.

E’ questione di disciplina. Metti la cera/togli la cera.

Però sorride. Alla fine c’è un lato ludico, penso. Un po’ come giocare alla playstation: prova e riprova finché non passi il livello. Ma è un gioco. Non un sacrificio.

Mi viene spontaneo: “come vanno gli allenamenti?

Mi risponde: “che allenamenti?

Sorrido. In fondo la disciplina può avere tanti nomi e forse il nome fa la differenza. Chiamarsi Andrea o Romualdo non è proprio lo stesso.

Mi vengono in mente tutte le diatribe sugli sport olimpici, sull’opportunità di chiamare “sport” certe discipline. Ma alla fine to sport perchè deve perdere quel senso originario ricreativo? Mia nonna chiedeva sempre: “lo fai per sport?“, per sottolineare che eri tanto pirla da non aver guadagnato niente da una qualche azione.

E forse aveva ragione la nonna. Che senso ha fare una cosa per niente? Per non guadagnarci niente? Fosse anche la coppa del nonno o il salame se fai un sacrificio lo fai per qualcosa.

Sempre mia nonna: “gnanca el càn el mena la coa par gnente“.

Poi mi è venuto in mente Bender. Si, Josh Bender. Il tafazzi del freeride “oldskool”. Uno che si buttava insensatamente giù da strapiombi per sfracellarsi ogni volta senza ritegno appena toccava terra. 10-15 anni fa aveva pure un discreto seguito, poi è rimasto mezzo paralizzato ed è diventato inevitabilmente vecchio abbastanza da capire che Go big ad una certa età è solo una stronzata che ti può far finire col catatere ed un plaid sulle gambe per il resto dei tuoi giorni.

A guardarli oggi i suoi video fanno pensare che sia stato il precursore di Jackass.

Lontano anni luce dal saper fare i trick pazzeschi dei più talentuosi dirt-jumper odierni. Lontano anni luce dall’avere la tecnica in discesa dei downhiller “veri”. Ridicolmente distante dall’atleticità dei megavalanchisti e superenduristi odierni.

Ad un certo punto, però in un vecchio video lo si vede che guarda giù da un gap mostruoso, gambe larghe sul bordo del precipizio, con la risibilmente enfatica colonna sonora dei Judas Priest a fare da prologo all’ennesimo tonfo bestiale in cui finirà contro un cespuglio 30mt più a valle.

Cazzo guardi Josh?

Niente. Lo fa per sport.

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