Il Tibet italiano

Tibet, luglio 1971

Avanzo lungo la valle, intorno a me si ergono alte catene di montagne rocciose.
Dopo due ore di viaggio la valle del Kyi Chu si allarga. Nel mezzo di essa si eleva una collina nella quale, come una fata morgana, tetti dorati scintillano al sole.
Il Potala! Una gigantesca fortezza bianca che sembra la naturale prosecuzione della collina da cui sorge. Come un possente veliero di pietra pieno di mistero, il Potala troneggia su Marpori, la rossa montagna.
Potala significa “il porto sicuro” e Lhasa vuole dire “luogo degli dei”.
Bisogna abituarsi alla quota, Lhasa è pur sempre a 3700 metri. Arrivo al Lingkor, la famosa strada dei pellegrini che racchiude il settore sacro della città. Poi le stradine diventano sempre più piccole e improvvisamente mi trovo sul Parkhor, l’anello di strada più interno che racchiude il tempio di Jokhang, il luogo più sacro del Tibet. Vecchie case tibetane con le finestre in legno intagliato gli fanno da corona. Accostati ai muri i venditori hanno esposto le loro merci per terra: stoffe, scarpe, lane, stoviglie di metallo. Una fitta e colorita umanità si muove in quest’anello in senso orario. La vivacità di Lhasa toglie il fiato. Qui si affollano pellegrini di tutto il paese.
Nella polvere della strada una vecchia donna percorre tutto il Parkhor prostrandosi continuamente a terra. Guardando il suo viso imperturbabile, ho la certezza che il mitico Shangri La, che noi occidentali abbiamo sempre cercato in Tibet, non sia da ricercare ne nel vecchio ne nel nuovo Tibet, ma che i Tibetani lo portino dentro di se nella testa, nell’anima e nel cuore.
Occhi sorridenti mi guardano, mentre un denso odore di grasso e fumo mi fa quasi stare male. Quasi tutti mi porgono qualche cosa, chi un amuleto, chi un gioiello o un pezzo di stoffa da smerciare. Sono felice, finalmente sono arrivato.
Accompagnato dal profumo dei bastoncini di legno che bruciano sui piccoli altari ai bordi della strada, arrivo all’imponente gradinata che conduce al Potala. Appena entrato, nella semioscurità sono al cospetto di luccicanti statue di bronzo del Budda, passo attraverso solenni sale e biblioteche, sempre più giù in questa splendida costruzione labirintica del re dei monaci. Il Potala è lungo 365 metri, alto 109 e largo 335. Racchiude più di mille stanze. Ecco le statue dei Dalali Lama seppelliti qui in chorten artisticamente decorati. I tibetani credono che il Dalai Lama sia un Bodhisattva, un illuminato che grazie alla sua bontà e saggezza si è già liberato dalla ruota delle reincarnazioni, che però ha scelto di ritornare sulla terra per aiutare l’umanità sofferente. Egli è la reincarnazione di Chenresik, il dio della misericordia e primo antenato di tutti i tibetani.
Con ripidissime scalette raggiungo infine il tetto del Potala. Il panorama su Lhasa e sul Tibet riempie gli occhi.
Da Lhasa passa la via per raggiungere il monte Everest da nord.
Il monte Everest (Chomolungma in tibetano, “dea madre delle nevi”) costituisce infatti il confine fra Nepal e Tibet, lungo l’orlo settentrionale del Khumbu-Himal nel Himalaya.
E’ stato scalato per la prima volta nel 1953 da Hillary e Tensing, poi ancora nel 1956 da una spedizione svizzera e nel 1960 per la prima volta dal Colle nord da una spedizione cinese.
Nel 1970 una spedizione giapponese raggiunse la vetta dal Colle sud con otto persone.
Nel 1971 la spedizione sciistica giapponese con 34 partecipanti e 800 portatori diede come risultato la discesa con gli sci dal Colle sud da parte di Miura: circa 2000 metri di dislivello in pochi minuti.
Solo nel 1978 la prima ascensione del monte Everest totalmente senza uso di ossigeno da parte di R. Messner e P. Habeler. Nel 1980 la prima salita in solitaria, in stile alpino e senza ossigeno da parte di Reinhold Messner per il Colle nord.



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Passo dello Stelvio, luglio 1971

Un giovanissimo nonnocarb trascorre parte delle sue ferie estive al rifugio Tibet, quasi 2800 metri sul livello del mare, insieme agli amici della squadra di sci di Merano, in preparazione alle gare invernali. La mattina trascorre sulla neve, discesa di riscaldamento e poi pali, pali e ancora pali, una scorpacciata fra slalom speciale e gigante. A 3300 la quota si comincia a sentire, ma una volta che ci si abitua, basta scendere di poco e si vola.
Il pomeriggio allenamento a secco, si corre come camosci fino al confine con la svizzera a comprare tavolette di cioccolata, oppure alla cima Garibaldi, oppure su un sentiero sconosciuto segnato col numero 13 verso la cima del Segnale, dove si domina la strada dello Stelvio.
Al ritorno tappa d’obbligo al passo dello Stelvio, dove soggiorna anche la mitica “valanga azzurra” con i fratelli Thoeni, Stricker, Gros, Schmalzl, Pietrogiovanna a chiedere gli autografi d’obbligo.
Ritornati al rifugio Tibet, doccia e attesa della cena ai tavolini del bar con giochi di società ammirando lo splendido panorama dei 48 tornanti della strada che sale al passo Stelvio.

 

Passo dello Stelvio, luglio 2011, quarant’anni dopo…

Avanzo lungo la valle, intorno a me si ergono alte catene di montagne rocciose.

Improvvisamente il sole sorge vicino all’Ortles, la montagna più alta dell’Alto Adige

Dopo due ore di salita la valle di Trafoi si allarga. Sulla destra verdi prati, sulla sinistra la bianca roccia. Nel mezzo si trova, come una fata morgana al termine di quei 48, infiniti tornanti, il passo dello Stelvio con la gigantesca fortezza bianca del primo albergo. Più in alto sulla sinistra, il rifugio Tibet.

Il rifugio Tibet troneggia sulla grigia montagna.

Continuo a salire, ormai manca poco. Ansimo, bisogna abituarsi alla quota, il passo dello Stelvio è pur sempre a 2758 metri. Arrivo al passo, con il famoso cartello fotografato da migliaia di bikers ogni anno. Vecchie case con le finestre in legno intagliato gli fanno da corona. Accostati ai muri i venditori hanno esposto le loro merci davanti ai negozietti: stoffe, scarpe, lane, stoviglie di metallo e magliette con scritte varie. Una fitta e colorita umanità si muove sulla strada. La vivacità del passo toglie il fiato dopo più ore di scalata ascoltando solo il mio ansimare. Qui si affollano moderni pellegrini di tutta Europa.

Occhi sorridenti mi guardano, sono uno dei primi ciclisti arrivati quassù oggi, mentre il denso odore di grasso e fumo del baracchino dei würstel e delle salsicce mi fa quasi stare male. Quasi tutti mi porgono qualche cosa, chi un amuleto, chi un gioiello o un pezzo di stoffa da smerciare. Sono felice, finalmente sono arrivato al mitico passo dello Stelvio, e non con una leggera bici da corsa, ma con la mia fida strive da 14 kg.

Accompagnato dal profumo misto di gas di scarico delle moto e creme abbronzanti di signore truccate che si avviano con gli sci in spalla verso la funivia del ghiacciaio, rifuggo da questa variopinta quanto dubbia umanità e mi avvio sulla strada che conduce al rifugio Tibet
Improvvisamente eccolo, sullo sfondo le nevi eterne dell’Ortles

Di colpo si riaffacciano alla mia mente ricordi giovanili che sembravano ormai sopiti.
Appena entrato, nella semioscurità sono al cospetto di una luccicante statua del Budda, passo attraverso il ristorante e il bar fino ad arrivare alla vetrata che domina sui tornanti della strada che sale al passo. Il panorama sulla valle di Trafoi e l’alpe di Glorenza riempie gli occhi. La in alto comincia il Goldseeweg che ho percorso qualche anno fa

Il rifugio Tibet è alto una quindicina di metri e racchiude quattordici stanze, ma negli occhi di bambino era grande come il Potala.

 

Dal rifugio Tibet parte un sentiero, il numero 13, che ho percorso qualche volta di corsa ormai quaranta anni fa fino alla cima del Segnale. Da qui poi scende verso l’albergo Sottostelvio e arriva a Trafoi. Dopo il tuffo nei ricordi giovanili del rifugio Tibet, è questo il mio vero obiettivo della giornata. Anche perché, dopo la chiusura (anche se giustamente poco rispettata) alle bici del Goldseeweg fino al rifugio Forcola, questo sentiero può diventare la vera alternativa per scendere dallo Stelvio offroad e sono perciò molto curioso di vedere la sua effettiva ciclabilità. Prendo dunque il sentiero che parte proprio dietro al Tibet, fra le rocce. I primi 5 minuti sono a spinta, si sale infatti ancora un po’, fino a circa 2800 metri, poi si può cominciare a pedalare

mi volto per vedere un’ultima volta il rifugio Tibet con sopra la cima Garibaldi e a destra il Goldseeweg.

Dopo un breve tratto pedalato in falsopiano, arrivo nei pressi della cima Segnale, dove comincia la discesa, con il Livrio, il Madaccio e l’Ortles.

Non sto più nella pelle, il panorama è fantastico e la discesa sembra altrettanto, mi butto

Il sentiero è sufficientemente largo da poter lanciare la bici in velocità senza problemi

E mentre nella funivia si ammassano persone che salgono verso il ghiacciaio, io scendo sul divertente sentiero nella pace più assoluta

Sento solo il rumore dei sassi smossi dalle ruote della bici

Ora il sentiero passa sulla cresta del costone Davanti e si vede bene tutta la strada che sale dal lato opposto.

Il sentiero è tutto un tripudio di tornanti mai troppo stretti, curve in contropendenza, il tutto sempre scendendo di fronte alle nevi eterne dell’Ortles e del Madaccio. Mi fermo un attimo e mi godo l’insuperabile panorama. Riparto. Sto perdendo quota piuttosto rapidamente e la grigia pietraia lascia posto ai primi ciuffi verdi

Il sentiero è sempre scorrevole e l’erba ancora più alta fa da contrasto con il nevaio del Madaccio

Arrivo all’albergo Franzenshoehe (Sottostelvio), siamo ancora a 2200 metri e si cominciano ad intravedere i primi alberi.

Il sentiero incrocia per un breve tratto la strada che sale al passo, poi si butta nuovamente nel bosco. Improvvisamente si entra in un ghiaione, è la parte finale della vedretta del madaccio e mi diverto a surfare sugli infiniti sassi smossi.

Adesso il sentiero scende a destra verso il santuario delle Tre Fontane, affronto una serie di tornanti piuttosto stretti che richiedono una certa tecnica, poi continuo veloce

Al bivio prendo il sentiero 2 lungo il rio Solda, anche questo scorrevole e divertente.

Sono ormai sotto il paese, ma c’è ancora tempo per passare un ponticello e poi continuare sul bel sentiero in terra battuta nel bosco

Eccomi a Trafoi, mi fermo, mi giro per un ultimo sguardo al ghiacciaio. Lassù, 1500 metri più in alto, cerco di intravedere il rifugio Tibet.

Sul mio viso, solitamente imperturbabile, non riesco a trattenere un sorriso. Che il mitico Shangri La, che noi occidentali abbiamo sempre cercato in Tibet, non sia da ricercare ne nel vecchio ne nel nuovo Tibet, ma nel sentiero che parte dal rifugio Tibet? Forse…

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