Se penso al marchio che più ha rivoluzionato il mercato della bici negli ultimi 20 anni mi viene in mente solo Rapha. L’impatto che questa azienda ha avuto grazie alla visione del suo fondatore Simon Mottram è stato enorme su tutto il mondo ciclo. Una semplice maglietta monocolore con una fascia bianca (o nera) su una manica è diventata immediatamente un’icona, un urlo liberatorio per tutto il settore da anni di abbigliamento di qualità “buona il giusto”, con colorazioni e grafiche secondo l’estro del giorno, senza un’idea di fondo (se non una vaga idea di “surf-fluo” negli anni ’90).
Rapha ha invece fatto diventare cool il ciclismo, con il suo stile minimalista, ma ricercato, con una cura per il dettaglio mai vista prima, come i fori per far passare i fili delle cuffiette nelle maglie (sì cari giovani, una volta le cuffiette avevano il filo). Insomma, Rapha ha introdotto la moda, il fashion, nel ciclismo. Odiata da alcuni, perché il ciclismo è puzzare e menare, ma amata da tantissimi, in particolare la crescente onda di amatori (quelli disprezzati da chi “ha corso“) che finalmente potevano vestirsi in un modo decente e non essere solo delle comiche macchiette vestite come i professionisti, ma con 10kg in più. Rapha ha creato ed introdotto nel ciclismo non solo uno stile, ma un vero e proprio Lifestyle, uno stile di vita, fatto di Coffee-Ride, Clubhouse, etc.. in parole povere il genio commerciale anglosassone si è appropriato della cultura e tradizione europea continentale (Francia, Belgio, Italia), l’ha ruminato e poi l’ha munto nel nuovo standard stilistico del mondo ciclo. Appropriandosi ed iniettando di steroidi anche ambiti in cui certe culture pensavano di essere er’mejo, come quella del caffé, ed invece si sono trovati ad essere umiliati da australiani che ti insegnano il giusto grado di tostatura del chicco ecuadoreño.
Il nome stesso Rapha proviene da una squadra francese degli anni ’60, da cui tutto il marchio ha pesantemente colto a piene mani nell’estetica per restituire uno stile neo-retrò con grande tempismo, visto che questo stile ha dominato lo stesso periodo (gli ultimi 20 anni) in vari settori, dalle auto alla moda generica, con la riproposizione incessante di modelli “aggiornati” di icone del passato (che per me ha sempre tradito una certa mancanza di idee e poca fiducia nel futuro).
Questo ha portato il ciclismo ad essere appetibile per tutta una nuova coorte di persone che prima erano repulse da quello che proponeva il settore, ovvero lo stile simil-pro di cui si diceva. Una nuova clientela, attratta dalla possibilità di fare sport, ma con stile, ma allo stesso tempo non uno sport qualunque, ma uno sport per definizione totalizzante come il ciclismo, per cui non si è soddisfatti e contenti dopo 1h di pallettate a tennis o a golf, ma che richiede ore ed ore di pratica, mangiare il giusto, la dieta keto-paleo-pseudo, gli integratori, ed accessori a iosa: caschi, scarpe, guanti, occhiali, sensori, app, software, etc.etc…in una spirale senza limiti.
Una volta reso cool il ciclismo ed attratta la clientela coi soldi, e non più solo l’ex-“che ha corso“, la strada è stata spianata per tutto il settore per proporre un’infinità di prodotti a tema, con il mercato che si è saturato in breve tempo di infiniti Rapha-cloni, impegnati a fare la gara al pastello sempre più pastello, alla scritta sempre più invisibile, al dettaglio sempre più insignificante, alla collaborazione con settori sempre più lontani. Ma non solo lato abbigliamento, anche lato componenti, con aziende impegnate sino ad allora a fare tutt’altro in altri settori a proporre pastiglie dei freni in cashmere, gabbie del cambio in vero oro e cera d’api ammaestrate per la catena. Ed ovviamente sono ri-saltati fuori dalla cantina gli artigiani. Il vecchietto prossimo alla pensione che cambiava solo camere d’aria alla sciura di città che di colpo si è trovato alla porta gente pronta a dargli migliaia di euro per il telaio “saldato a mano”, persino dei giovani, con barba e tatuaggi, pronti a pulirgli casa gratis pur di imparare la sacra arte del saldare. Il vecchietto si è dapprima grattato la testa, ma poi perché no. Si è persino tolto lo sfizio di apparire intervistato in una rivista giapponese in formato A5, alla faccia della sciura che pensa che sia solo un casciavid con le unghie nere.
E cosi si è andati avanti 20 anni circa, con tutto il settore a scopiazzare il genio di Mottram, a vantarsi dei CEO alle granfondo, a proporre Bike-Tourz a 7000€ a settimana, e tutto il settore ad adeguarsi volentieri nel vendere al tot % in più quello che prima si vendeva al tot % in meno.
Tutto bene, tutto bellissimo (per chi ha venduto). Finché, la moda, come tutte le mode, ha cominciato a dare segni di stanchezza. I cloni non sapevano più cosa e chi copiare, la lotta al dettaglio è arrivata al parossismo, e soprattutto il mercato si è ritrovato a fare i conti, letteralmente, con una situazione in cui i prezzi sono esplosi. Se per anni il mantra è stato che il “ciclismo è il nuovo golf”, ci è resi conto che il ciclismo ha superato abbondantemente il golf e si è avvicinato al motorsport per costi. D’altronde siamo élite e vendiamo a prezzi élite, no?
I prezzi pian pianino sono diventati l’argomento di discussione nei forum. Della nuova bici presentata si è passati dal commentarne le specifiche, l’estetica al commentarne solo il prezzo. E non in modo positivo. Prima la presentazione di un nuovo modello era un’occasione di frenesia per il settore, media compresi, perché portava entusiasmo, discussioni. Ora quasi lo si teme, perché porta solo sarcasmi, critiche, negatività diffusa. E no, non è un bene “purché se ne parli”, perché l’atmosfera tossica non porta nuove persone ad avvicinarsi all’ambiente. Ne viene respinta. E cosa forse (evidentemente?) non considerata da tutto il settore, è che pure i prezzi sempre più stratosferici allontanano i potenziali nuovi praticanti. In particolare i giovani, che sono da sempre il futuro, ma senza schei nemmeno troppo.
Certo, ci sono bici e componenti per tutte le tasche, ma il traino al rialzo portato dai mitici top-di-gamma anche per la media e bassa gamma è innegabile. E se non è un problema vendere la bici da 15.000€ al libero professionista, lo è piazzare la biciclettina “base” da 8,5kg a 4-5000€. E comunque anche il settore top-di-gamma è vittima n°1 dell’effetto Rapha, essendo una fascia ormai iper-extra-super-satura, dove una miriade di concorrenti si contendono comunque i numeri bassi di quella che per forza di cose è una nicchia. E Decathlon ringrazia.
Ciliegina sulla torta è poi arrivato il/la covid con l’amabaradan di cui ci ricordiamo tutti, che ha complicato tantissimo le cose per il settore, in particolare perché ha fatto ubriacare tanti facendo credere che potesse durare all’infinito, ma sopratutto credendo veramente che fosse possibile un mondo di “top-di-gamma per tutti”.
La realtà è che la moda è passata, i CEO giocano a padel, il sempre scopiazzato mondo dell’automotive non gode di miglior salute (e per alcuni versi per motivi analoghi), ma ci restano i prezzi dell’utopia mottramiana. Peccato che nel frattempo qualcuno si sia accorto che un copertone da 200gr costi come quello di una Dacia, che un flaconcino di olio per i freni a disco costi 3€ in un negozio di motoaccessori, ma 15€ in uno di bici, ed una bottiglia di lattice per i tubeless come una di Amarone. E sai che c’è? Tanti si sono stufati.
Che poi si possa pedalare anche spendendo poco è un altro discorso.
per il resto mi pare che le considerazioni der ser pecora siano condivisibili: rapha ha individuato una nicchia di mercato e creato il bisgogno di capi dal look da hipster in gravel. ora il bisogno è aumento