[Continua da qui] La nostra giornata di acclimatamento inizia con un giro del lago in mattinata. Facciamo qualche foto e facciamo dei filmati. Pazzesco questo posto, e il sentiero vertiginoso a picco sul lago ci lascia senza fiato. Che figata!
Rientriamo a Ringmo per pranzo, e poco dopo prepariamo le nostre cose per una breve tappa di trasferimento al campo base del Baga La, il nostro primo passo: una casetta in un fondovalle immenso. Soltanto 3 ore e poco dislivello lungo sentieri bellissimi. Sfioriamo i 4000 metri e siamo circondati da montagne enormi, sicuramente sopra i 6000. Spettacolo puro.
In questa giornata siamo riusciti a rilassarci e le notti trascorse vicini ai 4000 metri non ci hanno dato alcun tipo di problema. Siamo fiduciosi e decidiamo che l’indomani proveremo il nostro primo 5000, che sappiamo sarà parecchio duro. Sandro ci raggiunge dopo un’oretta: iniziamo a prendere confidenza con lui: sono molto schivi e diffidenti gli abitanti del Dolpo, e non capiamo se è estremo rispetto, o appunto diffidenza verso di noi. Sandro ci chiede di provare la bici. È molto piccolo e le nostre Transition sono grandi anche con la sella bassa. Dopo 10 minuti di adattamento non la molla più, e pedala nei prati per ore. E’ veramente bellissimo vederlo e inizio a volergli bene.
Trascorriamo la serata in compagnia di alcuni ragazzi che guidano una carovana di yak. Si sono fermati qui con noi a mangiare Dhal bat: lo mangiano con le mani, e noi che usiamo il cucchiaio a mo’ di badile veniamo fissati con uno sguardo sospettoso e incuriosito. Il giorno seguente non avremo rifornimenti per tutta la tappa, quindi carichiamo gli zaini con uova e patate lesse per il pranzo. Siamo una decina di persone intorno alla stufa. Non ho ancora visto il volto dei due signori anziani seduti in fondo, che dal pomeriggio non si sono mai mossi, ma sento le voci e la tosse causata dal fumo perenne nella stanza.
La mattina seguente di buon’ora partiamo pedalando e superiamo i 4000 metri in un fondovalle magnifico e selvaggio, con un sentiero che sale dolcemente. Tutto intorno pareti di roccia severe e scure, cascate e assenza di vegetazione. Finito il pianoro, la traccia piega a sinistra, molto ripida.
Da qui dobbiamo caricare le bici in spalla, per la prima vera fatica del viaggio, una spallata di 3 ore e 1000m di dislivello. Il passo si fa sempre più lento, appesantito dal fardello che ci portiamo sulla schiena e dal fiato che è sempre più corto. Parliamo poco io e Michele. Scrutiamo spesso l’orizzonte ma il passo è sempre lì. I nostri riferimenti tipicamente alpini su dislivello, sentieri, quota sono completamente stravolti e qui capisco veramente il significato di andare “a sensazione”. Un lento ma incessante procedere alimentato da tanta fatica, mentre gli occhi ammirano i paesaggi e sperano che le virghe nevose all’orizzonte non sopraggiungano.
E’ stata dura arrivare allo scollinamento, ma siamo d’accordo sul fatto che tutto sommato è gestibile, oppure abbiamo un’ottima sopportazione.
Il tempo non è dei migliori, con nuvole minacciose e nevicate all’orizzonte, ma la discesa si presenta come una striscia veloce sul ghiaione, e ci buttiamo giù a capofitto.
Arriviamo a Danigar, che è semplicemente una tenda quadrata disordinatissima con una stufa minuscola al centro. E’ ancora presto e stanotte dormiremo a 4500m. Inizia a piovere e montiamo la nostra tenda. Qui incontriamo i primi turisti occidentali, che stanno facendo il nostro percorso in senso contrario. Sono due francesi, con 5 nepalesi tra portatori e guide, e allestiscono un vero e proprio campo separato con tutto il necessario. Non ci piace questo approccio elitario dei turisti, serviti e riveriti con molti comfort e che non partecipano alla quotidianità dei locali.
“Tashi Delek!” Poco prima dell’imbrunire arriva una comitiva di ragazzini, giovani e giovanissimi. Sono una ventina, bagnati e infreddoliti. La serata si anima e ci riuniamo tutti intorno alla stufa mentre fuori cala il freddo. Prima di cena ci viene servito del thé al Burro di Yak, emulsionato in uno stantuffo di legno. Pesante da mandare giù ma almeno è caldo. Mangiamo un po’ di riso tutti insieme e i bambini di Dho Tarap, che parlano un buon inglese, ci chiedono delle squadre di calcio europee, dell’Italia. Probabilmente di calcio ne sappiamo meno di loro, ma si percepisce come vedono l’occidente, il loro sogno proibito. Si percepisce anche un po’ di invidia nei nostri confronti, ma comunque ricordo i loro volti, sorridenti e felici.
È piacevole parlare con loro, e continuo a pensare che stanotte dormiranno sotto un telo impermeabile perché non hanno una tenda. Nel frattempo fuori il tempo è migliorato, c’è una stellata incredibile ma fa anche molto freddo. Non so che temperature avremo raggiunto ma è tutto già congelato. Inizia la nostra prima vera notte in alta quota. Mi sembra di percepire un leggero mal di testa, o forse mi sto ascoltando troppo. Il sonno in realtà sarà abbastanza tranquillo e riposante, con i soliti sogni pazzeschi che mi prendono quando dormo profondamente.
Ci svegliamo alle 6, il sole è ancora molto basso e tutto è gelato. Abbiamo indosso tutto quello che ci siamo portati, ma sappiamo che appena farà capolino il sole scalderà le pietre e i nostri corpi. Stamattina dovremo attingere dalle scorte personali per la colazione, dato che qui non c’è nulla. Sullo sfondo il Norbung kang è già illuminato dal sole e i suoi seracchi sono minacciosi anche da lontano. Ripartiamo in fretta per raggiungere il tepore del sole, lungo un trail in quota tutto fattibile in bici, che spettacolo! Anche oggi abbiamo un passo impegnativo da affrontare: siamo tranquilli perchè abbiamo davanti tutto il giorno e il tempo è veramente spettacolare, con un sole che ci brucia. In mezz’ora passiamo dal piumino alla maglietta a maniche corte. Adoro questo clima, il mio corpo è in perfetta temperatura di esercizio e non patisco né caldo né freddo. Solo un po’ di fatica, ma a questo siamo allenati. Il passo è abbastanza duro, con pochi tratti pedalabili nell’ultima parte, e oggi dobbiamo superare i 5300m.
Incredibile la discesa che affrontiamo, non abbiamo parole. Fondo perfetto per le due ruote, passaggi divertenti e un orizzonte sterminato con centinaia di cime brulle e spazzate dal vento: ma dove siamo finiti? Il sentiero si immette su un crinale rettilineo, infinito e lunghissimo. Mollo completamente i freni, è troppo invitante ma ho il tarlo in testa dei prossimi giorni di viaggio. Siamo dall’altra parte del mondo e non possiamo rischiare di farci del male.
Mentre ho questo pensiero Michele mi supera al doppio della velocità urlando. In quel momento ricordo perfettamente che qualsiasi pensiero è svanito ed esistevamo solo noi e le nostre bici su quel crinale sabbioso, compatto e completamente rettilineo. Volavamo tra arbusti e piccoli dossi lasciando soltanto una scia di polvere: poesia!
Siamo veramente curiosi di arrivare a Dho Tarap, villaggio del Lower Dolpo, incrocio di numerose vie di comunicazione e famoso per i suoi Stupa immersi nei campi di orzo.
Passiamo poco prima da Takyu, o Taxi, ognuno la chiama come gli pare. Già è difficile perchè nessuno parla inglese e dobbiamo comunicare a gesti. E per fortuna gli italiani sono bravi, coi gesti. Siamo in questo angolo di mondo e veniamo assediati da due bambini. Ci guardano e sicuramente stanno pensando: “Questi sono gli extraterrestri! Uno di loro ha addirittura un rilevatore intergalattico posizionato sul casco, e la ruota dell’altro sbrodola roba bianca, sarà il loro cibo…”
Grazie di esistere piccole pesti, anche quando ci avete spazientiti perchè dopo un’ora ci stavate ancora correndo dietro, sfiniti. Non fate il guado nel fiume, che l’acqua è più alta di voi! Diventerete uomini alla svelta in questo angolo di mondo, forse troppo alla svelta!
Dho Tarap ci regala un po’ di civiltà e un po’ di aria tiepida del pomeriggio: facciamo volentieri una passeggiata sulle alture nei dintorni per ammirare dall’alto queste vallate. Ci sono davvero tante varianti, tante possibili traversate da fare con la mtb. Abbiamo studiato bene le mappe e conosciamo le valli e sentieri. Che bello sarebbe anche andare verso il Tibet, oppure scendere verso la riserva di Dhorpatan.
Passeggiamo tra i sentieri del villaggio accompagnati da una decina di bambini, ci danno la mano: “Namaste, Tashi Delek” “Dondebat”. Sono poche le parole nepalesi/tibetane che riusciamo a capire, ma spesso un sorriso è sufficiente. Stasera la cena ci viene preparata in una lodge lussuosa rispetto a quanto siamo abituati. Probabilmente mangiamo il miglior Dhal Bat del viaggio, con perfino della carne nel brodino (che in realtà è solo ossa). L’aspetto positivo del Dhal bat è che non esiste porzione, si può fare bis e tris e ovviamente per noi è questa la regola. Iniziamo a definire meglio le tappe dei giorni a seguire, visto che capiamo come e quanto possiamo osare con le nostre bici. Il percorso si sta rivelando molto interessante. Domani, stando a tutte le informazioni che abbiamo, ci aspetta il passo più impegnativo del viaggio, ripido e senza acqua.
Lasciamo Dho Tarap con un cielo nuvoloso e i soliti dubbi malcelati sul maltempo, mentre Sandro si intrattiene e ci raggiungerà probabilmente lungo la salita. Il primo pezzo è meraviglioso, un sentiero in leggera salita che si lascia alle spalle i campi coltivati e si addentra in una vallata aspra e selvaggia. Ci togliamo le scarpe per guadare un fiume gelido, e ripartiamo per prati e arbusti, sempre in sella fino a 4400m. Oggi è un po’ diverso dal solito, il sentiero è poco tracciato, spesso distrutto dal fiume in piena e si procede a rilento. Si fatica anche a trovare quella regolarità che ci ha aiutato a sopportare la fatica nei passi precedenti. Ora capisco cosa intendeva Sandro. E aveva ragione: “difficult!”.
A volte mi chiedo come possa passare di qui una carovana di muli o di yak, se noi bipedi in alcuni tratti non sappiamo dove mettere i piedi. In fondo alla valle si impenna il ghiaione del passo Jhyarkoi La. Oggi guardo spesso il mio altimetro, e Michele rimane attardato, forse sta patendo anche più di me. Fanno male i tendini d’achille, c’è tanto peso da portare su: Sandro una volta che ci ha raggiunti sorride e ci apostrofa come “Sherpa”. Il sentiero sale a zig zag, molto ripido e ogni 10 minuti è necessario riprendere fiato. Un paio di volte togliamo anche la bici dalle spalle. Anche oggi almeno 3 ore di dura salita col fardello sulle spalle. Stiamo portando su 30kg di roba, è durissima e c’è un vento così gelido che al passo praticamente non ci fermiamo. Giusto il tempo di due rapide foto e di un uovo sodo con un paio di chapatee, riparati dal vento. Il panorama è incredibile, a nord si vede il Tibet.
Siamo veramente in alto, 5450m e il cielo così azzurro con quelle nuvole disegnate ci schiaccia da tanto è profondo. Ammirazione per la natura, adrenalina per la discesa, che ci lascia senza fiato, ancora una volta. Siamo in Upper Dolpo e i sentieri se possibile sono ancora più flow, ancora più tortuosi e polverosi di prima. È goduria pura, è molto meglio di quanto potevamo immaginare. Anche tutto il sentiero saliscendi verso Kharka, un prato di accampamento, è interamente ciclabile sul filo dei 5000 metri. Ma dove siamo? Nel nulla totale! Che valli immense in questo altopiano!
Stanotte dormiremo in questo prato. E’ pomeriggio avanzato e arrivano rovesci nevosi con aria gelida dalle montagne. Incappucciati e silenziosi ci soffermiamo a guardare un’enorme mandria di yak in lontananza, ancora più in alto di noi. Ricordo di aver provato a contarli ma a malapena li distinguevo dalle rocce. Saranno una cinquantina e forse il mandriano dovrebbe richiamarli ora, sempre che ci sia qualche essere umano a governarli. Come saranno finiti lassù, su pendii erbosi dimenticati, che nessuno vorrebbe visitare? Passiamo diversi minuti a guardarli, tutti e tre incantati. Ci accendiamo un fuoco con degli arbusti di ginepro rinsecchito, che bruciano in una vampata di fiamme in pochi secondi. Mentre cala il buio ci cuciniamo la nostra razione di cibo surrogato che ci siamo portati, dall’ottimo rapporto peso/calorie ma dal pessimo gusto. Io riesco a farmelo piacere, Michele proprio no. Con un quadretto di cioccolato non è neanche male e in poche cucchiaiate finisco questo finto porridge. Fa freddissimo e voglio infilarmi nel sacco a pelo. Cala la notte, c’è un silenzio surreale e una stellata che ti riempie gli occhi. Sarà una lunga e fredda notte.
La mattina tutto è gelato e stanotte abbiamo avuto un po’ di freddo anche nei nostri sacchi, quindi credo che la temperatura sia stata a due cifre sottozero. Il fiume, la sacca idrica, il porridge di Michele avanzato. È tutto di ghiaccio. Esco dalla tenda a fare una foto ma è veramente freddo e mi sposto dove picchia il sole: sole che fatica a scaldare ma che ci regala giornate terse. Oggi la stanchezza si fa sentire. Ho male ai tendini dei talloni e alla spalla dove appoggio la bici oltre che il naso e le labbra a brandelli. Per fortuna ci aspetta una tappa tranquilla, visto che il passo è molto vicino e dopo ci aspettano chilometri e chilometri di discesa. Il sentiero prosegue come l’avevamo lasciato: un flow largo una spanna perfettamente disegnato in un enorme altopiano erboso e polveroso.
Tutto pedalabile fino al passo. Nonostante la stanchezza del giorno precedente siamo contentissimi, ci scambiamo sorrisi e abbracci. Anche Sandro è soddisfatto e inizia a capire cosa si può fare con le nostre bici. Se a inizio giro era dubbioso, ora ci incoraggia alla discesa facendoci capire a gesti che ci saremmo divertiti. E che dire: infinita! Una bava di terra negli arbusti dove si possono scegliere diverse linee, drop, curve e perfino delle sponde naturali. Non crediamo ai nostri occhi e ci lasciamo ancora una volta andare a tutta velocità. Upper Dolpo, che trail! Mentre scendo a folle velocità su un crinale disegnato apposta per le bici, intravedo qualcosa in lontananza, in movimento. Non posso crederci, due ragazzi in moto che percorrono questi sentieri. Ma come è possibile? Siamo in uno dei luoghi più remoti della Terra, a una settimana di cammino da qualunque altro villaggio, sentieri sconnessi e diversi passi sopra i 5000m. Li supero urlando e credo siano stupiti almeno quanto noi di vederci. Urlano anche loro. Hanno delle casse rudimentali attaccate ai fianchi delle moto con della musica tibetana.
Dopo avere aiutato uno dei ragazzi a superare un piccolo guado, raggiungiamo la nostra meta di oggi, lo splendido villaggio di Chaarka Bhot. Siamo vicinissimi al confine tibetano e siamo pure in anticipo di almeno due giorni sulla tabella di marcia. Decidiamo di fermarci due giorni qui, per recuperare un po’ le forze e per riordinare le nostre cose. È un villaggio arroccato su una rupe e c’è movimento. Scopriremo più avanti che le moto provengono da un passo con la Cina, che vengono smontate e portate con i muli. Incredibile perchè da qui non possono andare da nessuna parte con quelle motorette cromate, se non fare dei brevi tratti di sentiero.
Mangiamo Chapatee con della marmellata di ananas scaduta nel 2016: ricordo di aver mostrato il tappo con la data a Michele mentre stavamo masticando e nessuno di noi aveva proferito parola, solo un sorriso. La cosa curiosa è che una volta aperto quel barattolo, una specie di cimelio, tutti gli occupanti della piccola lodge, mamme, nonni, nipoti, passavano con il cucchiaio a favorire di quella marmellata, come se il nostro passaggio avesse fatto scattare il momento marmellata, che altrimenti nessun avrebbe osato aprire. Ne passano pochi di turisti qui, benchè sia un percorso segnato su qualche mappa. È una settimana che non incontriamo uno straniero. Il pomeriggio facciamo una passeggiata verso il Gompa, dove un monaco ci accoglie, vestito con un piumino The North Face in perfetto arancione tonaca. Ci mostra il piccolo tempio, ci parla dei nomadi che accampano li nelle vicinanze e ci parla del Tibet.
In realtà ci ha accompagnato al tempio una ragazza di Kathmandu, che parla inglese meglio di noi e abbiamo conosciuto nel villaggio. Gestisce la clinica, fa la farmacista e rimane qui a Chaarka tutte le estati. Tiene molto a questa comunità e si vede dall’ordine e pulizia della clinica rispetto al resto del villaggio. Sandro ci ha raggiunto dopo un paio d’ore. Per lui è stata lunga anche questa tappa. La serata trascorre tranquilla al caldo di una stufa seduti su delle stuoie tra preghiere e musiche buddiste. Il rituale è sempre lo stesso: le donne lavorano il minimo indispensabile, gli uomini pregano o riposano. Non troppa ospitalità per un popolo di montanari schivi e chiusi nelle loro abitudini, ma che hanno le fatiche di una vita disegnate negli occhi.
Soltanto piccoli richiami (in genere inutili oggetti) della vicina Cina ci ricordano che siamo nel XXI secolo, altrimenti potremmo essere tranquillamente molti secoli indietro. Ricordo la signora addetta alla stufa: seduta in contorsioni a me impossibili, mi osserva con sguardo severo e mentre impasta la farina per i chapatee del giorno dopo afferra della cacca di capra e la mette nella stufa, per poi tornare a impastare con la stessa mano. “Tutti anticorpi”.
La cena è sempre a base di Dhal bat. non ne possiamo più di riso e di patate, ma abbiamo sempre fame e ci tocca. Iniziamo ad essere inappetenti. Programmiamo di salire verso il confine Tibetano l’indomani. Sapevo già che era impossibile riposare.
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