[Continua da qui] Un ragazzo passato per il villaggio a riscuotere una tassa di passaggio ci dice che in una valle poco distante c’è un antico cammino verso il Tibet. La mattina è soleggiata e iniziamo la nostra pedalata verso il fiume, da dove parte questa storica via.
Ben presto il sentiero si perde tra arbusti e guadi molto alti, senza accenni di miglioramento lungo questa valle desolata. Decidiamo di puntare la cima più vicina. Sembra molto alta ma dall’altro versante intravediamo un crinale che potrebbe portarci al confine. La salita è quasi completamente a piedi, e senza sentiero seguiamo il crinale aggirando brevi tratti di rocce verticali. Dopo 3 ore siamo in cima e si è alzato un vento fortissimo, tanto che dobbiamo urlare per parlarci. Ci spostiamo verso nord su un crinale strettissimo ma che incredibilmente si lascia pedalare. Un paesaggio brullo e quasi completamente grigio con pochi ciuffi d’erba.
Vediamo il Tibet: non cambia molto dall’Upper Dolpo come aspetto: un altopiano sconfinato a perdita d’occhio, sopra i 5000 metri. Non ci resta che scegliere un crinale di discesa che possa sembrare divertente, ma non pensavamo di riuscire a fare una discesa del genere completamente freeride, 1000 metri di discesa in unica soluzione. Tratti ripidi e rettilinei flow invitano a mollare completamente i freni: c’è solo da prestare attenzione ai salti, dato che il vento ti spazza via quando sei in volo. Freeride totale!
Ritorniamo a Chaarka Bhot in un attimo e sfruttiamo il pomeriggio per revisionare le biciclette, per quanto possibile. Un vento freddo e fortissimo spazza la nostra tenda e ci rifugiamo a bere un thé caldo. Sandro è sparito, lo rivedremo soltanto verso sera, per la solita cena a cui stavolta si aggiungono delle erbe che… sembra proprio erba questa, quella di casa mia. Non che abbia mai assaggiato il prato, ma avrà sicuramente questo sapore terribile.
L’indomani ci rimettiamo in marcia prestissimo, lungo sentieri straordinari: centinaia di pietre accumulate con incise delle preghiere secolari sono ammucchiate in modo ordinato sulla riva. Che lavoro e che dedizione dietro queste incisioni! Sono veramente stupito, sono a migliaia e immagino siano messe per pregare che il fiume non esondi. Forse sarebbe stato meglio usare parte delle pietre e delle energie per costruire un argine artificiale a protezione del villaggio, ma risulterebbe come un semplice argine, privo del fascino spirituale e a volte contradditorio, tipicamente nepalese.
La nostra salita procede per nostra sorpresa tutta in sella, in una vallata che si perde fin verso il confine con l’Upper Mustang. Ogni tanto perdiamo il dislivello duramente guadagnato per scendere al fiume: ogni pedalata costa tanta fatica ma procediamo con un’ottima andatura, se confrontata con i primi giorni. Da adesso per più di due giorni non avremo alcun rifornimento e dobbiamo dosare le provviste.
Quasi 6000
La vallata si stringe, il sentiero diventa impervio ed esposto su sfasciumi ripidissimi. Obbligatorio restare concentrati, e la fatica non aiuta. A tratti il sentiero sparisce, non capiamo se abbiamo sbagliato, ed è veramente complicato procedere. Facciamo capire a Sandro che forse era meglio superare la vallata dall’altro versante, dove si intravede un sentiero lontano e una carovana di cavalli o muli. Testardo ci invita a proseguire e bastano pochi minuti per capire che il nostro istinto ci avrebbe portato dall’altra parte, probabilmente verso la scelta corretta.
Ma ora bisogna concentrarsi perchè dobbiamo superare salti di roccia e passarci le bici per evitare dei tratti molto pericolosi. Un piede messo nel punto sbagliato sarebbe… anzi facciamo che metto il piede nel punto giusto, ma sento che la mancanza di lucidità dovuta alla quota e allo sforzo mi richiede una concentrazione incredibile per tenere il passo fermo e sicuro con la bici in spalla.
Tutto questo ci prosciuga e dobbiamo anticipare il pranzo, una volta ritornati in fondovalle. La vallata di fronte a noi si apre, c’è una luce abbagliante e l’erba bruciata passa dal verde al rosso. Mangiamo le patate lesse che ci siamo portati in un sacchetto nello zaino e dividiamo una Clif Bar al burro di arachidi che mi sembra la cosa più buona del mondo. Siamo quasi a 5000 metri e il sentiero è stupendo. Mi avvantaggio un po’ e resto da solo ammirando ogni montagna intorno a noi: sarebbero tutte fattibili in bici, tutti panettoni dove fare del freeride selvaggio.
Che posto straordinario e isolato! Non incontriamo anima viva, nemmeno un animale. Sento solo dei fischi simili alle marmotte e vedo qualche tana, ma nessuna traccia degli animaletti. Devono essere più scaltre per sopravvivere qui, rispetto che sulle alpi. Me le immagino piccole e velocissime a nascondersi. Dobbiamo passare a volte nel fiume che si allarga e mangia il sentiero, ma è talmente basso e calmo che possiamo pedalarci dentro. Le nostre bici sono perfette per questo giro e non cambierei nulla dell’attrezzatura che mi sono portato. Anche lo zaino, pesantissimo il primo giorno, dopo due settimane mi sembra si sia dimezzato, oppure sono più forte io.
Mi fermo, prendo un po’ di acqua dal fiume e aspetto Michele. Ci sediamo e scambiamo due parole, siamo parecchio provati e pensavamo che la tappa di oggi fosse più breve. Ci serviranno ancora almeno due ore per arrivare al punto di sosta, un incrocio di due sentieri con una baracca di pietra crollata. Poco dopo passa una carovana di cavalli con dei sacchi di cemento e dei paletti di ferro da costruzione per il cemento armato, sicuramente diretti a Chaarka Bhot il giorno seguente. Siamo felici di vedere delle persone e comunichiamo a sorrisi.
Finalmente siamo a Nulungsumdo e dopo aver piazzato la tenda faccio una camminata in vista del passo del giorno seguente, che sarà il più alto del nostro viaggio a quasi 5600m: non è lontano. Superato un dosso erboso si staglia la sagoma imponente dell’Annapurna, che segnerà un po’ la fine del nostro viaggio ed è enorme rispetto ai monti qui intorno a me. Non appena cala il sole, cala anche un freddo pungente che ci obbliga a finire in fretta la nostra cena ed infilarci nel sacco a pelo.
La dieta a base praticamente di soli carboidrati supporta a fatica gli sforzi che dobbiamo compiere in questi giorni e lo percepiamo. Dopo due settimane accendo lo smartphone, in realtà senza un motivo particolare visto che è totalmente inutile qui. Riguardo qualche vecchia foto e penso a casa.
Il sole sulla tenda segna la nostra sveglia, e il rumore delle cerniere segna ormai la quotidianità dei movimenti e delle operazioni di picking della nostra attrezzatura. Il fiume è congelato e la tenda inizia a fumare sotto i raggi del sole. Dopo una magra e frettolosa colazione ci affrettiamo a partire per scaldarci. Quando vedo Michele attardarsi e camminare a testa bassa anche su un sentiero quasi piano e liscio, capisco che è veramente in crisi. Questi sono i limiti dettati dall’alimentazione: siamo sempre con le energie contate e oggi ci aspetta una tappa lunga anche dopo il passo di fronte a noi; c’è poco da fare se non procedere del proprio ritmo.
Credo sia il valico che personalmente soffro di meno, e sicuramente è anche il più bello. Si pedala fino a 5300m e lo conquisto con un ritmo lento ma regolare. Sono in apprensione per Michele, mi volto spesso e lo vedo arrivare. Lo conosco bene e non ho alcun dubbio o paura, ed infatti eccolo che dietro ogni curva arriva ricurvo nel cappuccio della sua giacca. Siamo al passo prima di mezzogiorno e c’è un cielo incredibilmente blu, con vallate immense in ogni direzione e i crinali erosi del Mustang all’orizzonte. Si sta bene qui e ce la prendiamo comoda sotto le bandierine colorate svolazzanti. Sandro ha già iniziato la discesa, anche per lui sono tappe impegnative ed è molto stanco, con percorrenze tavolta di oltre 40km e 7-8 ore di cammino.
Da adesso scendiamo di quota e abbiamo davanti 2000 metri di discesa. È difficile e faticoso anche procedere in discesa, ma è tutto così spettacolare, dal sentiero al contorno, che proseguiamo col sorriso. Oggi ci sono passaggi tecnici, tratti molto esposti e tornanti ripidi che ci fanno scendere di quota. Stiamo uscendo dal Dolpo, e anche l’aspetto delle montagne cambia, ora più severe e scure. A quote più basse ritorna il caldo e la fatica si fa sentire ancora di più. I sentieri rimangono sinuosi e godibili anche in mountain bike ma i continui saliscendi al fiume ci demoralizzano un po’. E ci si mette anche la mia gomma davanti che non vuole saperne di tenere la pressione. Arriveremo al villaggio di Sangda all’imbrunire, dove apprezziamo il comfort di una casetta ordinata. Giochiamo a palla con dei bambini intanto che aspettiamo la cena: è buonissimo anche il Dal Bhat, stasera va bene davvero qualunque cosa.
Civiltà
Quando abbandoniamo Sangda percepiamo la vicinanza della civiltà. È stata costruita una strada enorme, che a causa di una frana è bloccata da chissà quanto tempo, quindi nessun veicolo la può percorrere. Dobbiamo superare un altro passo a 4500m, ma ci sembra una passeggiata rispetto ai giorni precedenti. Da un nido a pochi metri da me vedo partire delle aquile, una, due, tre. Almeno una decina partono in volo. Sono enormi e le ammiro mentre ci girano sulla testa. Iniziamo a vedere del movimento, un paio di carovane, delle mandrie di yak. Ci stiamo avvicinando a Kagbeni, anzi ormai ci aspetta solo una lunga discesa di 2000 metri.
Kagbeni è una cittadina un po’ disordinata, con lavori in corso ovunque, ponti crollati sui fiumi, alberghi a misura di occidentale. Si vede che siamo vicini alle mete più classiche e frequentate. Ci concediamo un lauto pranzo, finalmente senza riso: Momo in abbondanza, delle specie di ravioli ripieni di verdure, e una birra Everest da 66cl. Finalmente! A questo punto il nosto viaggio può proseguire senza Sandro e proviamo a parlargli. Sandro è diventato ormai un amico, abbiamo condiviso fatiche e tanti momenti piacevoli e divertenti. Ci ha parlato della sua famiglia, dei suoi figli, e siamo contenti di aver condiviso il viaggio con lui. Ora però è diverso: nel giro di 5 minuti cambia come girare la frittata.
Dopo che avevamo pattuito e anticipato un compenso per 20 giorni a cifre generose, per una guida che neanche ci serviva, pagandogli anche una settimana di rientro da Jomsom a casa sua, ci chiede una mancia (davvero abbondante), continuando ad apostrofarci come “too poor, too poor for Nepal“.
Dal momento in cui lo abbiamo lasciato, purtroppo nel peggiore dei modi, io e Michele abbiamo fatto una riflessione (colorita) sul turismo in Nepal: un turismo a misura d’occidentale, che droga la popolazione locale pagando profumatamente pasti, servizi e mance senza alcun freno. Questo ovviamente porta i local ad adagiarsi aspettando la manna che viene dall’Occidente, nel modo in cui chi è fortunato a poter accompagnare qualcuno riceve un compenso veramente sostanzioso, e chi è meno fortunato vive nella miseria più totale. Ovunque infatti si nota una certa pigrizia quotidiana che sfocia in un amaro servigio quando serve.
Ovviamente la critica è rivolta al turista che pretende la stufa al kerosene anche in tenda a 5000 metri, che pretende di avere i comfort, dei passatempi o il cibo di casa quando è nella natura più selvaggia, lasciando trasportare il tutto a veri e propri servi che fanno qualsiasi cosa, non semplicemente i portatori. Io e Michele siamo contrari e vorremmo nel nostro piccolo promuovere un turismo a contatto con le popolazioni locali, che possa aiutare a crescere e prosperare una popolazione che ha un potenziale enorme nell’ambiente che la circonda, egoisticamente sfruttato dall’occidente in malo modo, mirato soltanto all’impresa da raccontare di facciata una volta tornati a casa, lavandosi le mani con un po’ di elemosina.
Il nostro viaggio prosegue in salita verso Muktinath con un vento malvagio che a volte non ci permette di procedere pedalando. abbiamo un migliaio di metri di salita da fare, ma a queste quote, sotto i 4000 metri, pedaliamo che è un piacere. Ci dirigiamo verso un piccolo Hotel di cui abbiamo visto un adesivo su una vetrina di kagbeni. Bel posto, con gestori cordiali e molto interessati al nostro tour. Torniamo a parlare inglese dopo 15 giorni, ci facciamo una doccia, finalmente, e abbiamo anche una connessione wifi per scrivere ai nostri cari. Lusso sfrenato insomma, che apprezziamo e che ci coccola durante questa serata.
L’indomani saliamo arrivando a lambire il famosissimo passo Thorong La del circuito dell’Annapurna, per lanciarci in una discesa incredibile verso Jomsom, con curve che sembrano disegnate apposta per le due ruote e ponti sospesi su alti canyon. Non potevamo concludere il nostro viaggio in modo migliore. Ritorniamo in fondovalle verso la cittadina di Jomsom su una strada polverosa e costantemente distrutta dal fiume Kali Gandaki. Qui alloggiamo vicino all’aeroporto, siamo spaesati e forse ancora non abbiamo realizzato che l’avventura tanto sognata è praticamente finita ed è andata nel migliore dei modi. Non sentiamo neanche l’alt del posto di blocco e veniamo ripresi dalla polizia. “Abbiamo tutti i permessi non preoccupatevi”: finalmente qualcuno ce li chiede.
Non è finita
C’è un vento fortissimo e freddo che solleva polvere. È abbastanza inospitale stare all’aperto per cui entriamo nel nostro piccolo albergo, dove aspettiamo la cena e prepariamo le bici per il volo di domani sul piccolo aereo, che partirà alle 6, unico momento della giornata in cui il vento si calma. Abbiamo tante fatiche da smalitire e dopo una cena abbondante ci lasciamo andare quasi subito in un lungo sonno ristoratore. Ci svegliamo che pioviggina e ci sono nubi basse. Siamo nel piccolo aeroporto alle 5:30 pronti a partire ma si sente aria di ritardi, e capiamo che il nostro volo verrà rimandato, senza che ci sia nessuna comunicazione ufficiale. Non abbiamo fatto colazione e mi fermo a prendere dei biscotti confezionati cinesi in una bottega. Secondo me proviene da loro la nausea e il malessere che di li a poco mi prenderà.
Inizia a piovere e dopo qualche ora capiamo che il nostro volo non partirà mai. È un grosso problema per noi visto che abbiamo i giorni contati e ci separano da Pokhara 120km di strade devastate dai monsoni. Decidiamo di dividere una jeep con degli escursionisti francesi. Ci tengo a precisare che in tutto questo disagio dobbiamo portarci dietro i nostri destrieri in carbonio pronti per il volo aereo, con le ruote smontate. Chiediamo “the fastest driver in Nepal”, scherzando, e in mezzo a decine di Tata e Mahindra spunta un Defender kittato anni ’80 che puzza di mezzo alpino. È il nostro. Carichiamo le amate bici sul tetto e inizia una lenta marcia tra strade distrutte, guadi, strampiombi vertiginosi e frane.
Dopo due ore la strada è interrotta da una frana, appunto, e non si può proseguire. Indecisi sul da farsi, carichiamo in spalla le nostre bici mezze smontate e iniziamo a camminare verso un villaggio, per un’ora di fatiche sotto la pioggia e nel fango. L’autobus che avrebbe dovuto condurci alla cittadina di Beni sembra non avere nessuna fretta e probabilmente starà fermo ancora per ore ad aspettare di riempirsi. Noi non abbiamo tempo e saggiamente decidiamo di rimontare le nostre bici. Di nuovo in sella, io con un po’ di febbre. La strada è un mare di fango.
Ci separano 50km da Beni ed ogni breve risalita a bordo del fiume ci costa uno sforzo enorme, in una spanna di fango, tanto che a volte dobbiamo procedere a piedi. Viaggiamo comunque più veloci dei mezzi motorizzati, che spesso si ritrovano impantanati o in panne. Superiamo dei piccoli villaggi dove regna la povertà più totale. Io e Michele non scambiamo una parola, spesso basta uno sguardo per capirci. Alle 18 siamo a Beni, distrutti, e dopo animate discussioni per caricare le bici su un autobus, per fortuna troviamo un ragazzo francese, che ha un’agenzia di mountain bike qui in Nepal, con cui dividiamo una jeep per Pokhara.
Parliamo del nostro viaggio, ed è molto interessato. Ci vorranno almeno altre 5 ore di percorso travagliato per raggiungere la città. Impossibile anche dormire su queste strade, spesso si viaggia a passo d’uomo e si viene sbalzati contro il tetto da voragini sulla strada. Oggi è stata sicuramente la giornata più impegnativa del viaggio e per fortuna a Pokhara troviamo una pizzeria aperta anche a tarda ora. Il clima è tornato caldo e umido come alla partenza del viaggio e onestamente non vedo l’ora di buttarmi a letto.
Il giorno seguente è finalmente un po’ più tranquillo e il volo verso Kathmandu stavolta è rapido e indolore, su un piccolo aereo che ogni tanto va in allarme, ma sembra non preoccupare i piloti.
A Kathmandu incontriamo Kedar, che ci viene incontro in aeroporto sudato e vestito come il primo giorno. È pomeriggio e alloggiamo in centro alla capitale in un albergo di finto lusso che stona in mezzo ai cavi aggrovigliati, le scimmie e i bazar del quartiere Thamel. La sera la trascorriamo in compagnia di Kedar, e purtroppo dato il poco tempo a disposizione non riusciamo a incontrare Ram e Bimal, due vecchi amici di Kathmandu. Un giro tra i bazar è d’obbligo, per qualche piccolo ricordo e un assaggio di clascon nepalesi. C’è aria di smog e umidità: siamo ben lontani dalle fredde notti del Dolpo, dalla sensazione di faccia gelata che ci accompagnava per tutto il giorno, dal vento dei 5000 metri, dalla notte nel sacco a pelo.
Il volo internazionale per Milano ci attende, e la nostra intensa avventura è giunta al termine. Domani torneremo già al lavoro e alla routine quotidiana (si, domani) dopo una botta di vita, di adrenalina e di solitudine che riusciremo ad apprezzare appieno soltanto dopo averla metabolizzata.
Se c’è qualcosa da rimproverarsi, o meglio, da rivedere, sono appunto i tempi troppo serrati, la voglia di riempire ogni attimo delle poche ferie a disposizione: voglia che però ci ha sicuramente permesso di chiudere un viaggio che neanche noi eravamo sicuri di poter fare, in luoghi dimenticati e su sentieri incredibili. Il Nepal ha quel misto di chaos e spiritualità che a volte incuriosice, a volte infastidisce, ma che ti attira come una calamita, insieme alle emozioni e ai paesaggi straordinari che sa regalarti, in cambio di un pò di sudore per raggiungerli.
Questo è esattamente ciò che amiamo fare e in queste lande desolate abbiamo trovato una vera dimensione in cui metterci alla prova, per riuscire ad evadere dalla società frenetica in cui ci ritroviamo immersi ogni giorno.
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