Plaine Morte: dove osano le aquile

Volteggia intorno a noi, come per capire se siamo commestibili. Non puzziamo ancora di carogna, perché abbiamo portato la bici in spalla nella neve con un vento freddo di nord-ovest, che ha impedito alle nostre pettorine di prendere i tipici aromi di downhiller bagnato.

Volteggia con quell’eleganza ipnotizzante e regale, prima girandoci intorno alla nostra altezza, poi prendendo quota con minimi movimenti delle penne. Il vento teso la sospinge in alto fino a confondersi col sole e dominare la Terra come una divinità.

Siamo in cima ad un dosso di schegge grigie fuori dalla nostra rotta per ammirare il panorama sulla Corona Imperiale e veniamo accolti da un’aquila reale? Che emozione! Che emozione vedere l’aquila reale da così vicino! È tutto talmente maestoso da farci sentire piccoli piccoli, tanto microscopici quanto grati per un regalo così straordinario.

E nel ricordare quel giorno, grazie anche all’infallibile mano e occhio di Yura, tutti i contrattempi che ci hanno impedito di portare a termine l’ambiziosissimo piano di battaglia originale, perdono di importanza.

I ritardi dovuti agli impianti, i ritardi dovuti alla troppa neve, alla troppa gente, alla pioggia arrivata troppo presto. Che importa, è stato bello così.

L’immensa pianura di ghiaccio di Plaine Morte, bordata di cime smussate, è uno scenario impressionante e strano, perché ben differente dalle guglie aguzze e ghiacciai abbarbicati sulle ripide pendici delle altre Montagne del Vallese.

Montagne con la M maiuscola, quelle ancora adornate da nevi perenni. Ero già salito quassù sudando sette camicie, senza funivia, tre anni fa e la sorpresa nello scoprire un ambiente del genere era stata grandissima.

Negli occhi dei miei compari vedo la medesima sorpresa, quando usciamo dalla funivia, pur senza essere annebbiati dalla fatica della salita nel calvario di pietre del vallone cupo del Sex Mort (un nome un programma). Siamo in mezzo al Vallese ad un palmo dai tremila metri, per cui è ineluttabile restare impressionati di fronte alla collezione di 4000 che addenta il cielo.

Sporgono dalle creste tutte le principali vette, come se alzassero la mano a dire “ci sono anch’io”: dal Dom al Grand Combin, dal Cervino al M. Bianco, dal Täschhorn al Dent Blanche… Un po’ ne riconosco anch’io, ma è Yura il cicerone. Lotta con la sua memoria alla ricerca di quella vetta tra il Weisshorn e la Dent Blanche; sempre la solita che non ci si ricorda. Cede, lo chiede all’app: Zinalrothorn!

Ma quanti sono questi 4000 di fronte a noi!?

Avevo attratto Yura e Cristiano a Sierre, proponendogli un doppio giro estremo da chiudere in un giorno solo. Le previsioni erano migliorate durante la settimana, quindi pareva che il sole ci avrebbe accompagnato fino a sera. Ma non c’era tempo da perdere. Avevo studiato il timing nel dettaglio e per portare a termine la missione, bisognava rispettare la tabella di marcia. Quindi via! l’ingordigia ci spinge a correre e soffermarci brevemente a contemplare tutto questo spettacolo. Siamo degli habitués di questi posti, eppure non ci abituiamo a tanto fascino.

Via, via, via. Partiamo già in ritardo, quindi via veloci!

Non si può andare veloci: c’è un mare increspato di neve molle che ricopre buona parte della prima discesa e il versante opposto, su cui dovremo risalire, è altrettanto candido e inospitale.

I miei soci hanno le FiveTen, dalla suola bella liscia, tipicamente “adatta” all’inerpicarsi sui nevai. Sono un po’ preoccupato, perché farsi uno scivolone di centinaia di metri è piuttosto facile.

Siamo i primi bikers a calcare quelle tracce quest’anno e anche le orme degli scarponi sono di soli quattro piedi. Non c’è neanche una sottile pista battuta e i gradini nella neve sono fatti dalle orme di chi precede. Tutto fila liscio come le loro suole, senza scivoloni con la bici in spalla. Molto bene. È stato fin più facile che inerpicarsi sulla pietraia – ora nascosta – come invece avevamo fatto nel 2013.

È tardi, il vento soffia costante e l’antipatia delle nuvole grigie comincia a sogghignare sul dolcissimo Oberland Bernese. Bestiacce, state dove siete! La forza del vento le sospinge veloci verso di noi; le ampie chiazze di neve in basso fanno vacillare la mia determinazione nel tentare il giro del — Rouge durante la discesa. Cosa facciamo? Ho già pronte varie alternative, nel caso non riuscissimo a chiudere l’anello intorno al Sex Rouge, per cui “dai, andiamo, che siamo in ritardo.. ma prima venite di qui”. La cresta sud dal passo Wisshorelücke è morbida alla vista e spinosa al tatto, smussata dall’erosione, è una dorsale di schegge affilate che si protende verso i suddetti 4000. Da lì si può ammirare per l’ultima volta l’immensità della bianca “pianura morta”. Yura mi incita a perdere altri 5 minuti per salire sul panettone successivo, fuori rotta, per godersi il panorama a 360°. Non c’è tempo, ma come si fa a dirgli di no?

Ed è lì che veniamo premiati dalla meravigiosa ascensione dell’aquila.

Yura è più veloce di Lucky Luke, cambia il grandangolo e monta il teleobiettivo in un nanosecondo. Fortunatamente l’aquila non ha troppa fretta di allontanarsi da noi. Forse è l’emozione del ricordo a dilatare i tempi, mentre le piroette che l’hanno portata in cielo sono durate pochi lunghissimi secondi. Che gioia!

Basta, via via! E ancora neve e neve fino al Wildstrubelhütte; lasciandoci alle spalle anche le pietre scistose grigie, cominciamo la picchiata sulle rocce rossicce, col sentiero che si attorciglia sui tornantini verso le verdi montagnette del Bernese e i laghi smeraldo, macchiati freddi di latte. Le due Endurone 29 XL fanno bene i tornantini come la 26 M. Bravissimi compari!

Poi ancora neve fino al Rawilpass, dove le rocce rossicce vengono sostituite dal calcare bianco. Cambiano le pietre, cambiano i fiori. Il giro di Plaine Morte è sicuramente uno dei più ricchi dal punto di vista della cromia delle pietre e della varietà floreale.

Grigio quasi nero, argento, rossiccio, bianco, poi di nuovo grigio, eccetera. E nonostante la neve tardiva, i prati sono già multicolori.

Ma che du’ palle ‘sta neve! mi sono sempre divertito a surfare sulla neve, ma le contropendenze esposte in alto e le continue macchie qui in basso, dove il flow con poca pendenza avrebbero dovuto lasciarci giocare bellamente, invece ci spezzano continuamente il ritmo. Ci vorrà ancora un mese prima di poter godere appieno di questo percorso. Pazienza. Ci specchiamo nel laghetto di Plan de Roses prima dell’ultima galoppata verso il Lac de Tsauzier.

Ormai è tardi e il vento gelido ha portato precocemente nuvole minacciose. Non ci sono più le condizioni per il giro del Sex Rouge. Ci fermiamo a mangiare i panini su un balcone erboso sopra al lago di sbarramento, contemplando le vette che si stagliano a sud in questa cornice idillica.

La mulattiera attraversa una galleria, taglia una falesia e ci porta al rifugio del lago. Abbandonando l’idea del doppio tour, ci prendiamo la libertà di perdere tempo intorno al lago, sul versante est, maledettamente strapieno di pedoni. Grazie ad una profusione di gentilezza, nessuno si lamenta del nostro passaggio. Singletrack bellissimo.

Arrivati alla diga, il cielo si chiude minaccioso e abbandoniamo anche l’ipotesi di risalire parzialmente verso il Sex Rouge per prendere la DH di Anzere; quindi ho quattro opzioni papabili, tutte molto esposte, come quella valle obbliga ad avere. Decidiamo di fare la Bisse d’Ayent, come da traccia.

Si perde quota su sterrate e si sta in saliscendi su sentiero esposto: più belle le bisse sull’altro versante, benché decisamente più pericolose.

Pioviggina, i passaggi sulla bisse (canale d’irrigazione scavato nel 1442 per portare l’acqua del torrente La Liéne fino ai pascoli e vigneti dei versanti solatii tra Sierre e Sion) restano indubbiamente molto scenografici: precipizi, sottili sentieri, gallerie striminzite con l’acqua di fianco; ma anche larghe e lisce mulattiere pianeggianti che costeggiano canali più ricchi d’acqua, in mezzo a belle pinete.

Restiamo tranquilli sulla Bisse d’Ayent fino a Chamoissaire, per poi volare veloci su semplici tratturi e ricongiungerci alla traccia più in basso. Il sentiero che piomba nelle gole di St. Leonard è una pista da discesa velocissima, molto battuta dai bikers locali. Una libidine.

Per uscire dalle gole il sentiero a balcone ad un certo punto si conficca nella roccia con un passaggio talmente stretto che siamo costretti a smontare la ruota davanti e fare due viaggi per portare prima ruota e zaino, poi il resto della bici, attraverso il lapideo pertugio “intestinale”. Resto al buio totale nei meandri della galleria: per fortuna i soci mi riaccendono la luce e risolvono la stipsi della montagna. Che ridere!

È finito il divertimento. In piano sul sentiero raggiungiamo i vigneti. Evitiamo di proseguire fino a Sion; visto il meteo, rientriamo a Sierre a pedali tra i frutteti e su e giù a ridosso delle vigne, sospinti da un amichevole vento alle spalle.

Avevo previsto di arrivare nella notte, saturi di fatica, portando a casa il doppio bottino, invece siamo alla macchina a metà pomeriggio. Pazienza. Non c’è nulla di cui rammaricarsi quando si conclude senza danni e senza infortuni un giro stupendo con buoni amici. E abbiamo visto l’aquila da vicino! Yeeeah!

Grazie compagni per aver condiviso questa piccola avventura. Grazie soprattutto a Yura per trasformare ogni visione in un ricordo da incorniciare.

Nota: la pasticceria a Sierre tra la stazione del treno e la strazione della funicolare fa delle mini-torte strepitose!

Traccia GPS

 

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