Sulla via del ritorno verso il traghetto che mi riporterà ad ogni giorno della mia vita, guardo al ritaglio di tempo e Sardegna ottenuto sforbiciando via qualche imprevisto. Il risultato è un frattale di angoli, sorprese e momenti.
In Sardegna la curva successiva è sempre più suggestiva, perché la scogliera è più a picco e il mare più blu, e l’immaginazione della natura che posa al di là dello scoglio o della macchia è sempre vinta dalla realtà.
Tre bicchieri di Cannonau a stomaco vuoto o un’Ichnusa da 66 cl a fine giro, quando la stanchezza imperversa, mi rendono meno ebbra di tanta bellezza.
E ripercorro galleggiando con la mente e le ruote i fiumi di pietra calcarea che innervano la costa orientale per sfociare nelle selvagge cale del Golfo di Orosei. Annego nell’emozione per il ritorno in sella dopo sei mesi di convalescenza anche se tutto è cambiato e un vento di nostalgia di persone e momenti felici si impone sul vento sferzante sardo che rompe le linee di sentiero che scelgo.
E’ uno sforzo velleitario cercare di fermare con la mia fotocamera di poche pretese l’innaturale vividezza di quei colori e neanche una reflex professionale può strappare da quei luoghi i profumi di erbe aromatiche e le raffiche di vento e di acqua salata che bagnano la pelle tornando in barca da Cala Luna.
Si abbandona Cala Gonone per essere più vicini all’imponente guglia di Cala Goloritzè, che sono capace di arrampicare solo col pensiero e mi accontento di raggiungere in sella l’acqua di cristallo che bagna i suoi piedi.
Intanto in paradiso è importante arrivare e non importa come.
Il nuovo alloggio a Santa Maria Navarrese è punto strategico di partenza per diversi giri, che quasi interamente si sciolgono in questo fresco viaggio ai 38 gradi raggiunti dal termometro che tengo sotto il braccio. Il “NO droga sesso Rock ‘n Roll”, che per il dottore sardo si tramuta in “NO droga sesso Mare ‘n Mtb”, mi fa rassegnare al pensiero che per il resto del viaggio mi restano solo i nuraghi.
Per fortuna, però, sono armata di scatti per immortalare chi ha più fortuna di me e ci sono il pan carasau e la fregula sarda…e il sole tramonta lo stesso nel cielo di Baunei e ad Ovest nel cielo della Costa Verde e nella penisola del Sinis, mentre la signora ricoperta di nero dalla testa ai piedi quasi rievoca storie da mille e una notte mentre legge gli annunci funebri in un dialogo tra vita e morte che si fondono come il mare con il cielo nell’orizzonte.
E la gente è affabile, così naturalmente e spontaneamente gentile, serena e non assoggettata al tempo durante le code interminabili alla posta o alla cassa del supermarket, nonostante le poche persone, per i fiumi di discorsi in una lingua musicale e indecifrabile, in cui si distinguono gli ahiò ed éhia, che io traduco in ligure nel più noto monocromatico, ma declinabile, belìn.
Il mio ritaglio di Sardegna è natura selvaggia. Chilometri di verde acqua ricoprono l’est puntellato di pecore, capre, maiali e asini e chilometri di verde intenso ritrovo ad ovest nella Costa Verde che da Capo Pecora si riversa su chilometri di spiagge e dune senza esseri umani.
E nella strada che porta a Buggerru immagino le vite attorno alle vecchie miniere di Iglesias oggi popolate da fantasmi e penso che il cielo notturno che oggi qui si può ancora vedere, lontano dalle luci artificiali, è lo stesso sopra il Sahara e non è molto diverso da quello sopra i minatori.
Il mio viaggio si conclude in sella disobbedendo solo alla fine ai consigli del dottore, ma questa volta nella penisola del Sinis, per l’Oasi di Seu e costeggiando per miglia le interminabili spiagge di quarzo bianco in compagnia dei soli uccelli.
L’ultimo tramonto è a Tharros, con un sole che non ci attende per gli ultimi scatti quasi a ricordare che nella vita si deve guardare avanti, come sul sentiero, anche quando si lascia una linea pulita e perfetta dietro di sé. E quando si cade bisogna rialzarsi.
Grazie Sardegna e grazie ai compagni di viaggio, quelli di poche ore e pochi giorni e quello di tutta l’avventura, per questo indimenticabile ritaglio di pace.
Grazie.