E’ una strana situazione. Per la prima volta in vita mia mi trovo a desiderare che il mio zaino sia più pesante. Anche se sto girando con tutto l’equipaggiamento per la notte, mi sembra che sia leggero, e ciò significa che sto per finire l’acqua. Siamo a 3000 metri di quota sulle remote montagne dell’Argentina settentrionale, sotto un sole cocente. Poi arriva la mazzata: “Siamo circa a metà” dice Francisco, la nostra guida locale. Siamo su questo sentiero già da cinque ore ma ne mancano ancora quattro prima di raggiungere il traguardo di oggi e finalmente reidratarci. Controlliamo quanta acqua resta e ci guardiamo a vicenda. “Credo che sia meglio che proseguiamo”, dice Hans Rey, nella cui voce manca il solito tono gioviale.
Assieme a Hans, l’amico Tibor Simai ed il cameraman Rob Summer, sto seguendo Francisco lungo quello che riteniamo uno dei giri più belli che chiunque di noi abbia mai fatto: una traversata di tre giorni che parte tra i cactus delle montagne deserte e finisce tra gli enormi ragni dell’umida foresta pluviale. Sono 25 ore di incredibile trailride, ma non si lasciano guadagnare facilmente. Ci sono 3000 metri di salita da fare ed un passo a 4100 metri da scavalcare. E finiamo l’acqua, tutti i giorni.
Il primo giorno siamo partiti presto dal villaggio di Tilcara. Sfruttiamo l’ultima possibilità di saltare un po’ di dislivello facendo con la jeep 500 metri di duro fondo montano arrivando al nostro punto di partenza, una stretta gola chiamata Gargantua del Diablo (gola del diavolo). Con nomi del genere mi chiedo in che guaio ci stiamo cacciando. Qui lasciamo la roba per la notte al nostro carguero, che ce la porterà a destinazione a cavallo. Per il momento mi godo tutto l’aiuto che riusciamo ad ottenere mentre partiamo dall’inizio del sentiero a 3000 metri. Passando attraverso un bosco di cactus attraveriamo l’unica sterrata che vedremo per i tre giorni di riding. Mezzora dopo siamo già sul singletrack.
I più bei giri all’avventura solitamente richiedono qualche pegno prima di ricompensare. La nostra attraversata sul sentiero “Tilcara a Calilegua” (dai nomi dei punti di partenza e arrivo) non fa eccezione. Il sentiero diventa ripido e siamo costretti a portare le bici in spalla per salire lungo una serie di tornanti. Abbiamo oltre un migliaio di metri da fare prima di arrivare al passo, ma malgrado il fatto di essere nel deserto ad alta quota da una settimana ormai, ci troviamo a boccheggiare nell’aria rarefatta.
Avanziamo con passo lento e metodico, la sabbia rossa ci copre le scarpe, il sudore ci gocciola dai caschi. Ci arrampichiamo su un sentiero scavato nel fianco della montagna da secoli di traffico umano ed animale, attraverso un paesaggio colorato che sembra un libricino da colorare per bambini, ma colorato nel modo sbagliato. La distrazione perfetta dalla nostra fatica a respirare. Collegando giungla e montagne, questo sentiero pre-Inca veniva usato un tempo per trasportare verso est sale e carne di lama, e frutti tropicali e piante allucinogene al ritorno. Secoli più tardi, questo sentero è riuscito ad evitare le macchine asfaltatrici che hanno cancellato tanti singletrack in tutto il mondo. Ancora oggi, su questo sentiero il veicolo migliore è il cavallo.
Abbiamo deciso di partire per la nostra avventura in Marzo, alla fine della stagione delle piogge in Argentina e dopo essere stati avvertiti che avremmo anche potuto trovare neve. Ma – almeno per oggi – la nostra scommessa è stata ripagata: il tempo è bello. Passiamo su una scalinata di roccia e pedaliamo lungo un sentiero asciutto e polveroso, lungo uno stretto crepaccio tra le montagne. Una volta imparato a trattenerci e non pedalare con troppo zelo, riusciamo a fare le ultime poche centinaia di metri fino al passo Campo Laguna, a 4142 metri. E’ un posto selvaggio e solitalio, ma molto bello, contrassegnato solo da un mucchio di pietre ed una croce di legno. Siamo contentissimi e vorremmo riposarci, ma un vento incessante ci convince ad andare avanti. Osserviamo una famiglia intera – dalla nonna ai nipotini – passare a cavallo e ci buttiamo nella prima discesa della giornata. Sono quasi le tre del pomeriggio.
Il sentiero veloce ma smosso ci lancia dritti in una densa nebbia che sale dalla foresta pluviale migliaia di metri più in basso. Nasconde l’uscita di ogni curva ma ci fa lo stesso buon gioco: finalmente troviamo refrigerio dal calore del sole.
Passiamo lungo un sentiero liscio come il burro e perdiamo subito diverse centinaia di metri. All’improvviso Tibor si blocca e noi a momenti ci accatastiamo sulla sua ruota posteriore. Proprio di fronte a noi una frana si è staccata dalla montagna, portandosi via il sentiero. Il che ci ricorda che stiamo pedalando su terreno selvaggio. Un infortuno qui significherebbe nella migliore delle ipotesi un prelievo a cavallo, probabilmente guidato da un bambino, e nel peggiore dei casi… meglio non pensarci.
Attraversiamo la frana e continuiamo, scendendo lungo una serie di tornanti che si perdono nel vuoto sotto di noi.
La giornata è durata nove ore di pedalata, con 1350 metri di salita e oltre mille di discesa, siamo quasi sfiniti quando arriviamo dove passeremo la notte. Un remoto rifugio senza nome. Dentro ci sono una serie di brande, una stufa ed una lampada alimentata ad energia solare. E’ il minimo ma nessuno si lamenta. Tutte le nostre paure per il dover finire il giro quasi senza visibilità appena mezz’ora prima del buio sono cancellate dall’entusiasmo per un’incredibile giornata di ininterrotto singletrack. Entusiasmo ulterioremente gonfiato da due bottiglie di vino rosso che il carguero tira fuori dalle tasche della sella del cavallo.
E’ ancora presto, ma questo sentiero si è già guadagnato un posto nei nostri cuori. Il compenso per i nostri sforzi arriva ampio e veloce. Tecnici rock-garden portano a traversate flow e ripide salite da svuotare i polmoni portano a discese piene di curve che sfidano qualunque bikepark a far di meglio. Nel frattempo il paesaggio intorno a noi si evolve, da aride pareti rocciose a morbide praterie alla lussureggiante e verde giungla.
Lasciamo il nostro rifugio sotto un cielo sereno la mattina successiva, e cominciamo con una salita di 400 metri. Saliamo lungo montagne che brillano di un verde neon grazie alla rugiada mattutina. Oggi è il più duro dei tre giorni: trenta chilometri di sentiero con 1300 metri di salita e 2650 metri di discesa. I condor che volano in cerchio sopra di noi sembrano un presagio. Scorriamo lungo sentieri attaccati ai ripidi fianchi delle colline, circondati da un mare di picchi di 5000 metri. Ad est lo tsunami di nebbia sa salendo, sommergendo le montagne di fronte a noi.
Per tre ore pedaliamo un sentiero ondeggiante, il modo migliore per coprire distanze quando si ha lo zaino pieno. Il fresco che ci intirizziva le dita alla mattina quando abbiamo lasciato il rifugio è ormai andato, lasciando il posto al calore del sole che non dà tregua. Siamo solo 24 gradi a Sud dell’equatore.
Il nostro sentiero è una linea viva tra i villaggi che collega. In una sosta per guardarci un’altro incredibile panorama, troviamo vita in un posto così selvaggio e remoto. In quella che sembra la zona più remota di tutti i tre giorni del nostro viaggio, ci troviamo in un cimitero sulla cima di una collina. Lontano, più in basso, possiamo scorgere i tetti del villaggio Molulo. “Diamine” dico “portano le bare fino quissù!”. “Oppure seppelliscono i morti essattamente dove muoiono!” aggiunge Hans, guardanto il desolato, impietoso passo su cui siamo saliti. E poco dopo ci rendiamo conto del problema dell’acqua.
Quello dell’idratazione è un problema concreto su questo sentiero, ma non quando si arriva al traguardo quotidiano. A San Lucas – un villaggio di trecase fatte di fango e mattoni, una delle quali ci ospiterà per la notte, siamo accolti da una cassa di benvenuto di birra Quilmes. Questo villaggio è a 3 ore di cammino dalla strada più vicina, lungo una traccia di sentiero che è spesso lavata via nella stagione delle piogge. Il fatto di trovare alcol in vendita è un indizio del fatto che almeno ci sia un po’ di turismo qui.
Tra una bottiglia di bissa schiumosa ed una empanada, Francisco ci racconta delli altevie guidate che percorrono questa fantastica strada. Ma ci riferische anche le preoccupanti sorie degli escursionisti indipendenti che si sono persi nella giungla, alcuni dei quali non sono mai stati ritrovati. Decido di non perdere mai più d’occhio Francisco.
E’ intorno a San Lucas che notiamo il maggiore cambiamento nel panorama. Il paesaggio aperto dell’alta montagna è andato, sostituito da una giungla umida e quasi impenetrabile. In mezzo ad essa scorre sinuoso un fiocco di terra rossa: il nostro sentiero. In gran parte non più largo di un metro, il sentiero gira intorno a un centinaio di curve perfette, ognuna ottima opportunità per una foto. Appena entro tra i cespugli in cerca dell’angolazione giusta da cui scattare una foto, Francisco mi ricorda che non siamo nel galles: “Attento a quelle piante, pungono” e prosegue elencando un’altra dozzina di pericoli della foresta, tra cui formiche, giaguari e ragni. Torno con cautela sul sentiero.
Il clima deserto dell’inizio del giro è ormai un ricordo. Grondiamo sudore mentre saliamo su un paio di ripide salite, prima di poterci godere la brezza fresca di un’altra discesa. Pedaliamo sotto cascate che si rovesciano da dirupi rossi. Sopra di noi gracchiano stormi di parrocchetti verdi. Passiamo su uno stretto balcone sospeso sopra il fangoso fiume Valle Grande, e poi scendiamo lungo curve in appoggio, sempre immersi in migliaia di tonalità di verde. L’aria è umida ma il sentiero è asciutto. Pedalare su un sentiero come questo in condizioni di bagnato sarebbe da pazzi.
Dopo venticinque ore di pedalate e spinta siamo finalmente lanciati a tutta velocità nel fondo della gola. Nelle nostre facce coperte di fango, polvere e sudore si aprono le ampie fessure dei sorrisi che ci sgorgano da dentro. Siamo dentro il Calilegua National Park, la fine del nostro giro. Ci fermiamo per togliere la sporcizia dai nostri volti e guardiamo agli ultimi 30 minuti di spinta prima della strada. Le zanzare si nutrono alle nostre caviglie e le magliette fradice di sudore ci si appiccicano addosso come in una perversa gara di miss maglietta bagnata. Ad alcuni sembrerà un inferno. Per noi è come se avessimo trovato il paradiso. Abbiamo tre giorni di avventura alle nostre spalle, sopra il tetto dell’Argentina. E’ stata dura, le gambe ci fanno male e abbiamo punture dappertutto, ma tutto ciò che desideriamo fare adesso è girarci e fare tutto un’altra volta.
Hans Rey ritiene il Tilcara-Calilegua trail uno dei più begli adventure trails che abbia mai fatto. Abbiamo coperto 60 km di distanza in tre giorni, con 3180 metri di dislivello d 4750 di discesa, il 99% su singletrack. Il periodo migliore per farlo è tra Aprile e Settembre (la stagione secca). Francisco Jose (www.jujuyenbici.com.ar) offre viaggi guidati con il supporto di cavalli, cibo, sacchi a pelo, pernotti, telefono satellitare di sicurezza e trasporto in jeep a circa 300$ a persona. Ha base nel tranquillo e confortevole hotel Gaia in Tilcara (gaiatilcara.com.ar). Volate direttamente alla capitale Buenos Aires. Arrivate a Tilcara con un volo interno (aerolineas.com.ar, 3 ore, 250£) o bus (22 ore, 20£) a Salta. Da Salta a Tilcara ci sono Autobus (4 ore, 5£) oppure Francesco può organizzare uno shuttle (3 ore, 120£ fino a 4 persone).
Torniamo indietro di 500 anni, prima che gli spagnoli saccheggiassero il sudamerica. In questo periodo ci vivono gli Inca. Famoso per i “sentieri inca” e per il Macchu Picchu, l’impero inca era centrato in Peru ma si espandeva anche su Ecuador, Cile del nord ed Argentina, Bolivia e parti della Colombia. Attraverso colonizzazione fatta di conquiste ed annessioni pacifiche divennero l’impero più grande delle Americhe, fino all’arrivo degli spagnoli. Malgrado non avessero nè acciaio nè ferro, erano una potenza non da poco. Ma alla fine caddero sotto le spade e le armature spagnole. Non avevano la ruota, ma senza dubbio hanno creato dei singletrack fantastici.
1. Idratarsi. Una perdita di peso corporeo del 5% dovuta al sudore può causare una perdita di efficienza dei muscoli fino al 30%, in ambienti caldi. Idealmente cercate di bere 0.3 litri d’acqua ogni mezz’ora e di portare con voi pastiglie per purificare l’acqua o un filtro se c’è la possibilità di riempire le borracce sul sentiero. Se non c’è la possibilità di rifornirsi per strada, assicuratevi di essere ben idratati prima di cominciare il giro e di bere un sacco (d’acqua) per le due ore successive al giro.
2. Carburante. Fate scorta di alimenti energetici a rilascio graduale, come Clif Shot Bloks, da mangiare ogni mezz’ora durante il giro per evitare crisi di fame, ma portatevi anche qualcosa di gustoso e nutriente. Non c’è niente di meglio della carica morale che da una sosta per mangiarsi un panino vero durante giri lunghi e impegnativi. Portetevi formaggio e sottaceti o in Argentina un paio di empanadas.
3. Sappiate quando fermarvi. Non abbiate paura di smontare e spingere se avete bisogno di pedalare il giorno dopo. Faticare su salite ripide a grandi altitudini è ottimo per i globuli rossi ma riempie le gambe di acido lattico, mentre spingere la bici impegna muscoli diversi, permettendo ai muscoli coinvolti nella pedalata di riposare. Inserite nel giro regolari soste di 5 minuti piuttosto che una sola sosta pranzo lunga un’ora, per prevenire che le gambe si irrigidiscano. Sfruttate le soste per godervi veramente il paesaggio e mettervi la crema solare. Dopotutto, non state pedalando a Birgnimgham (o alle quote italiane).
Il rider svizzero Hans Rey è noto ormai da quando ha vinto i campionati dle mondo di trial nel 1989. Forse il rider professionista con la carriera più lunga alle spalle, il cinque volte campione del mondo di trial Hans Rey si è da tempo dato a giri più avventurosi. Da giri sui vulcani in Ecuador fino alla ricerca dei cacciatori di teste nel Borneo, Hans ha mantenuto viva l’avventura nella mountin bike. Vive a Laguna Beach, California, e gira per GT bikes, LUX, Adidas, FOX, Crank Brothers, Clif Bar, Muc-off, e Deuter. www.hansrey.com
Tibor Simai è un cavallo. Già vice campione tedesco di power lifting (roba da montagne di muscoli, detto tra noi) è approdato alla mountain bike passando per dirt jump, bmx (due volte campione tedesco) e 4x.
La sua passione per la bici è imbattibile ma è nuovo agli adventure rides. Con 95 kg ed un fisico da Schwarzenegger, ci sono pochi altri rider su cui si può contare per farsi tirare fuori dai guai se qualcosa va storto. Tibor pedala per Canyon, Ergon, Marzocchi, 661, eThirteen, Oakley, Kenda e GoPro. www.tiborsimai.com
Traduzione di David Roilo.
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