A fine luglio 2018 Cannondale ha presentato la Jekyll 29″, il modello da enduro della casa americana da noi già testato nella versione con ruote da 27.5″ (potete leggere il test qui). Proposta in tre diversi allestimenti identificati come 1-2-3, in questo test ci occuperemo di quello intermedio.
Linea e soluzioni funzionali riprendono fedelmente quelle della sorella con ruote di diametro inferiore, mentre per quanto riguarda l’escursione troviamo valori più contenuti, tanto che da questo punto di vista la Jekyll 29″ potrebbe essere collocata a cavallo fra il mondo enduro e quello delle trail di nuova generazione. Ciò vale soprattutto per l’anteriore, dove l’escursione scende da 170 mm a 150 mm, escursione che troviamo anche al posteriore, al posto dei 165 mm sui quali può invece contare la 27.5″.
Anche sulla Jekyll 29″ troviamo la possibilità di ridurre l’escursione alla ruota posteriore via comando remoto grazie all’ammortizzatore Float DPX della serie Gemini, sviluppato da Fox in collaborazione con la stessa Cannondale. In modalità Hustle (la modalità full travel è denominata Flow), l’escursione scende quindi a 120 mm a fronte dei 130 mm della versione 27.5″.
La Jekyll 29 -2- in sintesi
Materiale telaio: triangolo principale in carbonio / carro in alluminio
Formato ruote: 29”
Taglie disponibili: S-M-L-XL
Schema sospensione: monocross assistito
Geometrie variabili: no
Corsa ant/post: 150/150-120 mm (variabile “on the fly”)
Ammortizzatore metrico: sì (230×60 mm)
Ruote e coperture tubeless ready: sì
Trasmissione: 1×12 (30T ant / 10-50 post)
Attacco per deragliatore: no
Attacco ISCG 05: sì
Attacco portaborraccia: sì
Garanzia telaio a vita: sì, per il primo proprietario previa registrazione on-line
Peso rilevato tg.L: 14.66 kg montata tubeless
Prezzo: 5499 Euro
Geometrie
Se avete un po’ di dimestichezza con le geometrie delle attuali bici da enduro avrete già notato che la Jekyll segue solo parzialmente i parametri che si sono consolidati negli ultimi anni portando le bici ad essere sempre più basse, lunghe e distese. Mentre l’angolo sterzo di 65° si può dire ben aperto, l’altezza del movimento centrale di 355 mm va infatti contro la tendenza che vuole bici sempre più rasoterra.
Con 1243 mm per la taglia L in test, la Jekyll non si può certo dire una bici corta, ma anche qui vale la pena fare una piccola puntualizzazione: mentre un po’ tutti i costruttori stanno puntando su reach sempre più abbondanti e carri di lunghezza contenuta, i progettisti Cannondale hanno preferito non forzare troppo la mano mantenendo delle quote più equilibrate. Ad un carro piuttosto lungo, fa infatti da contraltare un valore di reach relativamente contenuto, abbinato però all’uso di uno stem a sua volta corto e forcella dall’offset ridotto.
Credo di non sbagliare dicendo che si è cercato di abbinare al meglio le caratteristiche che hanno reso le bici discesisticamente sempre più performanti, con quote che invece dovrebbero giocare in favore della pedalabilità.
Analisi statica
Come schema sospensivo Cannondale resta fedele al monocross assistito, una soluzione che, per quanto ne dica chi la ritiene datata e troppo “semplice”, se ben implementata sa ancora dire la sua (e vi anticipo sin d’ora che proprio la Jekyll ne è la dimostrazione).
Mentre il triangolo principale è in carbonio, carro e link ammortizzatore sono in alluminio. Per quanto riguarda quest’ultimo il sito Cannondale è un po’ ambiguo (si parla di link in carbonio “disponibile” su tutti i modelli), ed avendolo effettivamente trovato a suo tempo in composito sulla versione 27.5″, abbiamo chiesto delucidazioni a Simone Maltagliati di Cannondale Italia, il quale ci ha confermato che i telai 29″ adottano il link in alluminio. Non si tratta quindi di una decisione commerciale legata all’allestimento, ma di una scelta tecnica che riguarda tutti i telai in versione 29″.
Il carro è generosamente dimensionato, compreso un massiccio ponticello di irrigidimento che collega i due foderi inferiori a ridosso della zona movimento centrale. Tutto fa pensare che solidità ed affidabilità siano state anteposte alla maniacale lotta al grammo, cosa che in fin dei conti ha un senso per una bici di questo genere ed è confermata dal peso generale.
Il carro della Jekyll 29″ conserva la tecnologia Asymmetric Integration utilizzata sulla versione 27.5″ e su altri modelli della casa americana. Lo spostamento verso il lato trasmissione del mozzo riduce la differenza di angolo e tensionamento dei raggi fra i due lati della ruota, con vantaggi sia in termini di affidabilità che di rigidità.
Il rovescio della medaglia è che la ruota richiede una campanatura a sua volta decentrata verso il lato “non-drive”, il che non è il massimo della comodità se avete set ruote da utilizzare in condivisione con un’altra bici o se dovesse capitare di montare una ruota “di emergenza”.
Carbonio o alluminio poco cambia, a caratterizzare esteticamente la Jekyll sono proprio dimensione e sagomatura della biella di rinvio. Sagomatura che ha permesso di ricavare sul tubo sella lo spazio per il portaborraccia ma che, dal punto di vista della rigidità, presenta luci ed ombre: sicuramente è un vantaggio l’angolo ben aperto fra foderi inferiori e superiori, soluzione che intrinsecamente garantisce maggiore rigidità rispetto ai carri dove l’angolo è molto chiuso, mentre sull’altro piatto della bilancia un link così lungo ha richiesto dimensionamenti e perni massicci per evitare flessioni di troppo.
L’accesso alla borraccia è abbastanza agevole ma, complice l’aver girato spesso su fondi bagnati e fangosi, la posizione non mi è parsa molto protetta dalla sporcizia sollevata dai pneumatici.
A parte la mia personale avversione per il routing interno del freno posteriore, il passaggio cavi non si presta ad alcuna critica. Le porte di ingresso al telaio sono realizzate con cura, i cavi non presentano curvature innaturali che ne compromettano lo scorrimento ed anche sullo sconnesso non c’è nulla che sbatte fastidiosamente.
L’adattatore c’è ma (quasi) non si vede. Il riferimento è a quello per la pinza del freno posteriore, essendo il telaio privo di attacco postmount diretto. A livello costruttivo questa è forse l’unica soluzione un po’ anacronistica trovata sulla Jekyll, che per il resto adotta invece tutte le soluzioni più moderne, compresa la predisposizione per Di2.
Sugli impanti frenanti SRAM si sono lette molte critiche negli ultimi tempi, soprattutto per quanto riguarda le versioni “base”. I Code R con dischi da 200/180 mm montati sulla Jekyll si sono comportati senza infamia e senza lode, adeguati sia in termini di potenza che di mantenimento della corsa della leva (tallone d’Achille di questi impianti), ma senza brillare particolarmente su nessuno dei due fronti. Diciamo che possono andare, ma sicuramente un impianto più performante permetterebbe di spremere quel pizzico in più dalle potenzialità discesistiche del mezzo.
Tutto perfetto a livello di trasmissione, affidata ad una guarnitura Truvativ Stylo customizzata Ai per il mantenimento della corretta linea catena e gruppo X01 Eagle 12V. La cassetta 10-50T avrebbe permesso di adottare una rapportatura un po’ più lunga di quella data dalla corona da 30 denti.
Corona relativamente piccola, ma soprattutto altezza del movimento centrale, non fanno rimpiangere più di tanto la mancanza di un bash, neppure sulle discese più tecniche.
Bella ed efficace la protezione in carbonio sotto l’obliquo, così come quella sullo snodo fra fodero inferiore e superiore lato trasmissione. La rastrematura del batticatena a ridosso della guarnitura non garantisce invece una protezione adeguata al fodero, come la foto testimonia.
Cerchi Stan’s NoTubes Flow MK3 tubeless ready, raggi DT Swiss, mozzo anteriore Formula e posteriore SRAM 900. Il mix di marchi è abbastanza singolare, ma il risultato è ottimo e le ruote montate su questa Jekyll si sono rivelate estremamente solide ed affidabili.
Passando ai pneumatici, in passato ho più volte scritto che la serie EXO di Maxxis non è sufficientemente robusta per bici di questo genere, costringendo ad utilizzare pressioni eccessivamente alte per evitare pizzicate e proteggere l’integrità dei cerchi. La mia opinione non cambia, ma la solidità degli MK3 ha permesso di scendere leggermente con la pressione rispetto a quanto sarebbe stato possibile fare con cerchi più delicati.
Piega, stem e manopole sono marchiate Cannondale. La prima è larga 780 mm, una misura adeguata anche se personalmente sono abituato a pieghe da 800 mm e qualche mm in più non mi sarebbe dispiaciuto. Gli stem molto corti sono ormai la norma, e nonostante il reach tutt’altro che kilometrico, anche in questo caso non si va oltre i 35 mm.
Ultimamente ho avuto occasione di utilizzare una serie di reggisella telescopici funzionali ed affidabili, il che allarga la scelta rispetto ai pochi modelli reperibili fino a non molto tempo fa. Tutto ciò finchè non si oltrepassa la fatidica soglia dei 150 mm di travel (in qualche caso anche meno), oltre la quale la scelta torna a restringersi.
Il DownLow di Cannondale appartiene proprio a questa “nuova generazione” di reggi, essendo ben realizzao in tutte le sue parti, comando remoto compreso, affidabile e bello fluido nel funzionamento. Ma per l’appunto non è disponibile con un abbassamento superiore ai 150 mm, valore che può andare sulle taglie inferiori, ma un po’ risicato per una taglia L con seat tube da 460 mm.
Una piacevole sorpresa anche la sella Fabric Scoop Shallow Elite, molto comoda e dalla bella forma affusolata.
Sospensioni
Uno dei punti di forza della Jekyll è l’ammortizzatore Fox Float Performance Elite DPX2 EVOL, ed in particolare la tecnologia Gemini ad esso applicata. Tramite un comando remoto è possibile ridurre il volume della camera positiva del Float, che in questo modo varia la curva di compressione diventando estremamente più progressivo. Ciò che si ottiene, anche se a voler essere pignoli non c’è una reale riduzione della corsa, è sostanzialmente una riduzione del travel sfruttabile, il quale scende a 120 mm. Questa modalità di lavoro è stata denominata Hustle, mentre in modalità Flow la corsa sale a 150 mm e l’ammo lavora in toto come un normale Float. La parte idraulica non viene interessata dal meccanismo Gemini, per cui il controllo della frenatura della compressione su tre livelli resta attivo in entrambe le modalità, così come in modalità hustle resta invariata la sensibilità dell’ammortizzatore, aspetto importante per garantire motricità sulle salite tecniche.
Cannondale non è l’unica casa a proporre un sistema di variazione delle geometrie (nel caso della Jekyll non c’è variazione delle geometrie statiche, ma a livello dinamico l’effetto che si ottiene è quello), ma il Gemini unisce efficacia, velocità di attivazione, leggerezza ed affidabilità. Ultimo ma non ultimo, l’ammortizzatore adotta quote metriche standard, quindi può essere sostituito con un qualsiasi altro ammortizzatore (ovviamente al prezzo della perdita del doppio travel).
Il comando per la variazione della corsa è realizzato da Fox e si compone di due levette: quella più lunga mette in tensione il cavo riducendo la corsa, quella corta lo “sgancia” ripristinandola nella sua interezza. Nonostante l’aspetto un po’ “plasticoso”, il comando ha sempre funzionato in modo fluido e preciso senza dare problemi di affidabilità.
Il posizionamento è però abbastanza infelice, sia da un punto di vista estetico, viste le dimensioni, sia perchè molto esposto in caso di caduta. Ulteriore piccolo fastidio, se si capovolge la bici senza spessorare sotto le manopole si corre il rischio di danneggiarlo.
Francamente mi è parso un passo indietro rispetto al remoto utilizzato sulla Jekyll 27.5 2018, meno ingombrante, costruttivamente più solido e più facilmente posizionabile sulla piega.
Al pari degli altri cavi, anche quello di comando dell’ammo passa internamente al telaio.
Discorso Gemini a parte, per il resto il DPX2 mantiene le solite funzionalità di questo ammortizzatore, vale a dire la regolazione della frenatura in compressione su tre livelli selezionabili attraverso una pratica levetta laterale, ed una ulteriore regolazione per il fine tuning della compressione alle basse quando l’ammo lavora in modalità open. Si tratta di una regolazione che personalmente apprezzo molto, visto che permette di personalizzare la risposta della sospensione a seconda che si preferisca un maggiore o minore sostegno in fase di rilancio ed in tutte le situazioni nelle quali si va a caricare il retrotreno, ma molto utile anche per i rider particolarmente leggeri o pesanti. Nel caso della Jekyll, per via dell’assetto un po’ particolare che vedremo al capitolo discesa, e potendo comunque contare sulla riduzione di corsa nelle fasi di rilancio, ho preferito non abusare di questa regolazione andando raramente oltre 4-5 click dal tutto aperto su un totale disponibile di 12.
Sulla forcella c’è molto meno da dire, trattandosi di una normale 36 Float Performance 36 da 150mm di corsa. Vale però la pena notare come il trend degli offset corti si vada affermando, visto che anche in questo caso è stato scelto un offset di 42 mm. Per il resto troviamo l’idraulica FIT4 Damper, 3-Pos adj., perno da 15×110 ed ovviamente cannotto conico. Ai due riduttori di volume già presenti (configurazione standard per la 36 da 150 mm) ne ho aggiunti altri due. Da questo punto di vista si entra in parte nel campo delle preferenze personali, ma con 4 riduttori il comportamento è maggiormente armonizzato con quello della sospensione posteriore ed al contempo l’anteriore resta più “alto”, cosa che come vedremo non guasta su questa bici.
Salita
Sulle moderne enduro non è raro trovarsi eccessivamente “seduti” quando si tratta di pedalare in salita o, in particolare se si ha tanto fuorisella, con il bacino troppo arretrato rispetto al movimento centrale. Con la Jekyll non accade nulla di tutto questo, e nonostante l’effetto collaterale di una posizione piuttosto raccolta, la verticalità del tubo sella fa sì che la posizione di pedalata sia redditizia e poco stancante. Grazie al comodo registro a tre posizioni, sia forcella che ammortizzatore possono essere inoltre fortemente frenati in compressione, frenatura che nel caso della forcella è quasi un blocco. Sullo scorrevole si sale quindi bene, soprattutto in relazione al fatto che la bici in ordine di marcia passa la soglia dei 15 kg, peso che si fa sentire in modo “prepotente” solo quando la pendenza diventa veramente impegnativa.
Non ho fino ad ora citato la possibilità di riduzione della corsa posteriore non per dimenticanza, ma perchè l’efficace frenatura dell’ammortizzatore la rende quasi superflua finchè non si abbandonano i fondi lisci in favore di quelli tecnici. Qui il sistema Gemini mostra tutto il suo potenziale, ed una volta ridotta la corsa alla ruota a 120 mm nel tempo di un click, la compressione dell’ammo può essere aperta lasciando che il carro lavori senza che la sospensione affondi più del necessario. In altre parole questo significa grande motricità ed un assetto che solitamente si trova su bici di categorie inferiori e maggiormente orientate alla salita. L’altezza del movimento centrale è la ciliegina sulla torta che consente di divertirsi anche laddove con certe enduro l’unico desiderio è che la salita finisca al più presto.
Discesa
Esistono bici che mettono a proprio agio sin dai primi metri, altre richiedono un certo periodo di adattamento. La Jekyll 29″ rientra nella seconda categoria, il che mi ha sorpreso solo fino ad un certo punto, essendomi capitata la stessa cosa con la versione 27.5″. L’avevo infatti già scritto a suo tempo e qui la sensazione è ancora più marcata: alzandosi sui pedali ci si sente “alti” sulla bici, piuttosto che “dentro la bici”, avanzati rispetto alla posizione della piega e quasi con la sensazione di stare su una taglia più piccola. Arrivare dal test della Capra taglia XL, la quale nel bene e nel male presenta caratteristiche opposte, ha probabilmente contribuito ad accentuare questa percezione, che tuttavia è spiegabile da una combinazione di dati quali l’altezza del movimento centrale, reach e stem relativamente corti e, seppure in misura minore, l’offset ridotto della forcella. Passare ad una taglia più grande potrebbe rimettere tutte le cose al loro posto, cosa che si può prendere in considerazione se non si è infastiditi dal seat tube più lungo (nel caso del passaggio da L ad XL si passa ad esempio da 460 mm a ben 520 mm, che per i miei gusti sarebbero troppi).
Una volta presa confidenza con questo assetto un po’ particolare la Jekyll mostra tutte le sue potenzialità, a cominciare dal flow guidato dove è facile da condurre ed estremamente precisa nei cambi di direzione. Se avete la fortuna di poter girare su sentieri di questo genere, il consiglio è di prendervi una buona dose di divertimento anche con la sospensione in posizione hustle per spremere fino all’ultimo grammo di reattività. Potrà sembrare insensato disporre di 150 mm di corsa e sfruttarne deliberatamente solo 120, ma sui giusti tracciati è una mossa che conferisce all Jekyll prontezza di risposta ed agilità degne di una trailbike.
Poter ridurre la corsa con un click è ovviamente un enorme vantaggio anche quando si tratta di superare eventuali strappetti in salita ed in generale sui rilanci, situazione dove la Jekyll è comunque favorita rispetto a molte concorrenti grazie all’altezza del movimento centrale che permette di “pestare” sui pedali in relativa tranquillità.
Quando la discesa diventa ripida e sconnessa, rispetto a modelli dove il rider si trova maggiormente “dentro” la bici è necessario gestire con un po’ più di attenzione la distribuzione del peso, pena trovarsi “over the bar”. Che non si tratti solamente di una sensazione è testimoniato dall’estrema facilità con la quale la ruota posteriore si lascia alzare per girare in nose-press, manovra per la quale la Jekyll sembra sia stata costruita apposta. Come detto si tratta comunque di trovare il giusto assetto in sella (o per meglio dire sui pedali), dopodichè angolo sterzo ben aperto, carro ed interasse relativamente lunghi, efficacia delle sospensioni e solidità generale fanno il resto.
D’altro canto la Jekyll non è una di quelle enduro che richiedono al rider di “mordere” il pneumatico anteriore per girare nello stretto, quindi una distribuzione del peso leggermente spostata sul posteriore rispetto alla norma non causa particolari difficoltà di conduzione ed è anzi ben assecondata dall’eccellente lavoro della sospensione posteriore, la quale non si siede più del dovuto e resta sempre ben attiva tenendo la ruota incollata al terreno.
Già, perchè uno dei punti di forza della Jekyll 29 è proprio la sospensione posteriore, i cui “soli” 150 mm di travel non fanno rimpiangere la maggiore escursione sulla quale possono contare alcune concorrenti. Il carro della Jekyll è sensibile, permette di sfruttare bene la corsa sugli ostacoli di media entità affrontati a velocità sostenuta (il che dovrebbe essere una situazione tipica per una bici di questo genere) ed ha una buona progressività finale per la gestione degli urti più violenti. Nel corso del test qualche leggero finecorsa non è mancato, ma tale è la compostezza con la quale la Jekyll assorbe anche gli urti molto violenti, che personalmente non ho sentito la necessità di intervenire sulla progressività dell’ammortizzatore con il rischio di compromettere l’eccellente equilibrio della sospensione. Equilibrio ideale che personalmente ho trovato impostando un sag un pelo inferiore al 35% (misurato da seduto, quindi attorno al 30% in posizione di discesa).
Tirando le somme, in discesa la Jekyll richiede una certa fase di adattamento, soprattutto per chi è abituato agli assetti parecchio seduti delle moderne enduro, ma superato questo scoglio iniziale si apprezzano i vantaggi che una geometria di questo tipo comporta. Vantaggi che forse emergono più in ambito all mountain a tutto tondo che non lungo le PS di qualche gara di enduro.
Conclusioni
Per Cannondale la ricerca di soluzioni particolari è una sorta di marchio di fabbrica, e con la Jekyll 29″ si può dire che il concetto sia stato esteso al carattere stesso della bici.
In un panorama di modelli enduro sempre più appiattiti sulle stesse soluzioni geometriche e sempre più votati alla discesa, la casa americana propone una bici capace di cavarsela egregiamente in tutte le situazioni, salita tecnica compresa. Da valutare con grande attenzione da parte di chi in una enduro non cerca solamente un mezzo ultraspecialistico in ottica race. Unica vera pecca il peso elevato, soprattutto se rapportato al prezzo.
In realtà il sistema Scott è più evoluto da almeno tre punti di vista:
_agisce in contemporanea su ammo e forcella
_ha tre posizioni (descend-traction-lockout)
_agisce anche sulla frenatura dell'idraulica in compressione (con la Jekyll devi intervenire manualmente sul registro posto sull'ammo)
Quale preferisco? Sulla carta direi che il sistema C'dale, pur "facendo meno", lascia maggiore libertà di scelta. Per quanto non sia una priorità, è ad esempio possibile usare la modalità hustle (travel ridotto) anche in discesa, cosa che con la Ransom sarebbe poco fattibile perchè sia ammo che forcella quando il travel si riduce vengono frenati anche in compressione.
Non so, magari provando la Ransom cambierei idea, ma così sui due piedi ti dico che a me piace avere il controllo dei vari setting e poterli "incrociare" a mio piacimento.